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III fase

Anno inizio: 
1932 to 1998

La complessa stratificazione dei fabbricati, la loro collocazione all’interno del perimetro murato della città e la condizione di alcuni di questi edifici, immaginati ed effettivamente poi configurati come enclave, lasciano cogliere, dell’intera esperienza del manicomio teramano, l’immagine di luogo dove la prossimità fisica alla città palesa, paradossalmente, anche l’esperienza di una ‘separatezza’ dalla condizione del ‘vissuto urbano’. Per altri versi, le relazioni degli alienisti che si sono avvicendati nella responsabilità dell’Istituto lo descrivono come una sorta di città nella città, rappresentando questa condizione come proficuamente strumentale a praticare protocolli di cura efficaci per l’infermo affetto da disagio mentale, tra i quali l’ergoterapia praticata nei laboratori ricavati negli ambienti del preesistente complesso conventuale [TE_4_3_5]. La stessa numerosità dei degenti e le svariate patologie studiate e affrontate a Teramo fanno di questo presidio un interessante laboratorio di diagnosi, cura e ricerca sulla più articolata definizione del male psichico. La trascrizione in spazi architettonici della sottoscrizione a Teramo di terapie e metodiche di cura non coercitive come il no-restaint da parte dei direttori Raffaele Roscioli e Guido Garbini – o di successivi alienisti – trova riscontri nel minuto allestimento distributivo degli ambienti o anche nell’adattamento di spazi preesistenti [TE_4_3_4] che saggiano nel rapporto con i vuoti interni del complesso l’opportunità di fornire ai degenti condizioni più rasserenanti [TE_4_3_6; TE_4_3_7]. Anche grazie ad attenti ricercatori della disciplina psichiatrica, come Marco Levi Bianchini e Danilo Cargnello, che avevano gestito la struttura abruzzese, il luogo veicola, inoltre, un’immagine di ricerca medica non disgiunta dall’attività sperimentale e di confronto con il medesimo male. Paradossalmente, dunque, la promiscuità con il servizio sanitario civile e la stessa collocazione ‘provvisoria’ nel contesto urbano delle strutture del manicomio, con l’indirizzo adottato dai direttori di aderire alle moderne metodiche della clinoterapia – la cosiddetta “cura del letto” – concorrono a rappresentare, sul piano sperimentale, uno degli strumenti riabilitativi di maggior fortuna o, almeno, ritenuti tali. Sotto il profilo architettonico acquista interesse il rilevare quanta attenzione vi sia stata nella creazione, ad esempio, di soluzioni di affaccio nell’infisso ligneo dei ‘balconi alla romana’, con la creazione della ‘mezza porta’ che ridefinisce, secondo le necessità del momento, il vano luce in uno di minore ampiezza, a mo’ di finestra, offrendo, comunque, la schermatura dal vento, per i degenti che restavano allettati. Il valore paradigmatico del nosocomio aprutino appare, per tanti altri aspetti, assai considerevole anche negli indirizzi di edilizia sanitaria applicata a garantire maggior comfort all’utente. Il profilo esistenziale del vissuto all’interno di una ‘città della pazzia’ inglobata nella città della ordinaria normalità è efficacemente sintetizzato da una frase graffita che si ritrova nei corridoi dello stesso presidio sanitario: “la paura ci difende” [TE_4_3_19], valida non solo per gli ospiti quanto, complementarmente, per i ‘normali’ niente affatto disposti a confrontarsi con gli assai prossimi disagiati mentali.

Dal punto di vista delle vicende edilizie, la necessità di ampliamenti e delocalizzazione di alcune funzioni si documenta anche in sede di progettazione di strutture nuove per accogliere i degenti [TE_4_2_8]. In particolare va segnalato, nel 1974, il tentativo di rispondere al sovraffollamento della struttura tramite la creazione di un nuovo polo di neuropsichiatria in contrada Casalena, alle porte della città, dove accogliere i malati di sesso maschile, riservando lo storico complesso di Porta Melatina alle ricoverate di sesso femminile.

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