Lo Spedale di San Luca della Misericordia viene fondato a Lucca nel 1262 con la finalità di “provvedere alla cura dei figli illegittimi e abbandonati e di tutte le persone che necessitavano di cure assidue”. Negli anni diviene il principale centro della beneficenza lucchese incrementando continuamente il proprio potere e giungendo a possedere, tra il XIII e il XIV secolo, più di cento immobili all’interno della cinta muraria, mantenendo un rapporto privilegiato con le più importanti istituzioni cittadine.
Alla fine del Quattrocento, a causa di una profonda crisi demografica, il patrimonio dell’opera assistenziale viene ridimensionato e sebbene lo Spedale continui a ricoprire sul territorio un importante ruolo nel campo dell’assistenza medica, per risolvere i problemi finanziari l’amministrazione è costretta a rivolgersi alla Santa Sede chiedendo che le entrate di qualche luogo pio del paese gli fossero riconosciute. Ai problemi economici si aggiunse la mancanza sul territorio di un ricovero per i malati di mente e gli indigenti, fino ad allora lasciati alle cure familiari o rinchiusi nelle carceri; una carenza particolarmente avvertita sul piano sociale dato che le città di Firenze e Bologna avevano già provveduto alla creazione di opportuni ricoveri.
Dopo una serrata trattativa con Roma al fine di ottenere la concessione del Monastero di Fregionaia, condotta dal maggio 1769 al giugno 1770, la struttura viene ceduta allo Spedale per trasferirvi parte delle proprie attività, essendo ormai il convento abitato da pochissimi religiosi che oltretutto, secondo i pareri dell’amministrazione ospedaliera, non erano “utili al popolo”: così il 27 novembre 1770 il pontefice Clemente XIV ratifica la soppressione di Fregionaia stabilendo che i suoi beni venissero destinati alla cura degli infermi. A testimonianza di tale atto viene posta l’epigrafe marmorea oggi visibile sul muro sinistro del vestibolo d’entrata dell’ex Manicomio di Maggiano, affiancata dalla successiva iscrizione del 1501 attestante i lavori di restauro eseguiti dalla Contessa Matilde e dal nobile Marcovaldo Malpigli. [LU_4_3_1]
Sebbene la Corte de’ Mercanti prenda possesso del monastero nel 1770 la sua trasformazione in nosocomio viene attuata solo due anni dopo.
Nessuna
recupero con ampliamenti
Non si conosce la data certa di fondazione del Monastero di Santa Maria di Fregionaia e neppure l’origine del termine da cui ne deriva la denominazione. Su tali questioni gli storici hanno formulato varie ipotesi: taluni accettano la derivazione del nome Fregionaia da San Frediano, intestando al celebre vescovo anche la paternità del primo nucleo religioso; altri affermano che l’ampliamento e la trasformazione in convento dell’impianto originario sia riconducibile a Matilde di Canossa; in studi più recenti la fondazione del cenobio è attribuita al nobile lucchese Marcovaldo di Forese Malpigli il quale avrebbe edificato il luogo, grazie a una licenza vescovile del 1253 e in virtù di un particolare privilegio concesso dal Comune, per condurvi una vita di penitenza insieme ad alcuni compagni.
Nella storia di Fregionaia il primo documento riconosciuto è la bolla papale del 15 maggio 1258 redatta da Alessandro IV che assicura all’ordine i privilegi riservati ai priorati. Da questo momento il monastero conosce un periodo di grande prosperità e stabilità almeno fino alla fine del XIV secolo, fase seguita da un periodo di abbandono e dalla rinascita a nuova dopo il 1402 (la congregazione di Santa Maria di Fregionaia è fondata nel 1421 su concessione di Papa Martino V). D’impianto trecentesco sono i due grandi chiostri affiancati, seppur rimodellati in epoca rinascimentale, che ancora oggi rappresentano la caratteristica peculiare dell’intero complesso e che si uniscono a un ulteriore piccolo cortile antistante la chiesa (il tempio di origine duecentesca risulta più volte ingrandito e rimaneggiato fino al secolo XVIII) a cui si accede dall’ingresso principale. [LU_4_3_2, LU_4_3_7]
La rappresentazione di Fregionaia inserita in un terrilogio del 1563 costituisce la prima importante testimonianza iconografica del complesso religioso: nel disegno risalta la vasta estensione dei terreni annessi al monastero e come nell’assetto odierno l’accesso alle strutture conventuali appare già rivolto a est, sorgendo il complesso in una posizione panoramica sulla piana di Lucca. [LU_4_2_1]
Il “Monastero dei Canonici regolari Lateranensi di Fregionaia” svolge le proprie funzioni fino al 1770, quando una bolla emessa da Papa Clemente XIV il 7 novembre dello stesso anno ne stabilisce la soppressione e il passaggio dei suoi beni allo Spedale di San Luca della Misericordia.
I fase: 1773-1850 [LU_4_1_4]
architetti/ingegneri: Giacomo Marracci
alienisti/psichiatri: Giovanni Buonaccorsi
Il 20 aprile del 1773 viene decretata ufficialmente l’apertura dello “Spedale de’ Pazzi di Fregionaia” e il giorno seguente giungono i primi 19 malati fino a quel momento rinchiusi nelle carceri pubbliche cittadine: al fine di stilare il primo regolamento del manicomio il “canovaro” e uno dei “servienti” sono inviati alla Casa dei Pazzarelli di Santa Dorotea a Firenze per prendere visione delle tecniche amministrative e di custodia di quell’istituto.
I lavori di riconversione e adattamento dell’ex convento hanno inizio un anno prima dell’apertura dell’ospedale proseguendo nei primi due anni di attività dello stesso. Per limitare le spese gli interventi appaiono modesti, limitandosi a quei cambiamenti e aggiunte indispensabili per adattare gli ambienti monastici alla nuova destinazione d’uso: tra questi la sostituzione degli infissi e l’applicazione delle inferriate, ovvero gli strumenti di contenimento essenziali per le conoscenze mediche dell’epoca in materia. L’esiguità delle modifiche apportate è confermata dai rilievi del complesso edilizio eseguiti alcuni anni più tardi dall’ingegnere Giacomo Marracci in qualità di consulente dei Regi Spedali ed Ospizi per la manutenzione dei relativi edifici, incaricato nel 1830 di elaborare un primo progetto di riorganizzazione dell’ospedale con lo scopo di aumentarne la capacità ricettiva. [LU_4_2_2]
La prima segnalazione di sovraffollamento dell’ospedale, infatti, è notificata al direttore generale nel 1829 quando il medico Giovanni Buonaccorsi sottolinea l’urgenza di provvedere alla creazione di nuovi ambienti per isolare i pazienti così detti “furiosi” da quelli “tranquilli”, trovandosi quest’ultimi accalcati in luoghi non idonei. Prima di procedere alla stesura di un progetto globale Marracci esegue dei rilievi perfettamente sovrapponibili a quelli settecenteschi: le uniche differenze si evidenziano nelle destinazioni d’uso dei locali, mentre non si notano opere di adattamento rilevanti dei vani. Anzi, i disegni marracciani confermano la distinzione operata alla fine del Settecento fra i due chiostri maggiori di Fregionaia: in quel momento il cortile orientale era stato riconosciuto come quello maschile, mentre in quello occidentale erano state ravvisate le condizioni migliori per il settore femminile. [LU_4_3_3, LU_4_3_4]
Il progetto di ampliamento redatto dall’ingegnere, oltre a prevedere l’elevazione di un lato del chiostro orientale da destinare a due ampi dormitori, comprendeva la realizzazione di un nuovo fabbricato a forma di U formulata in due diverse soluzioni. In entrambe le ipotesi i tre corpi rettangolari dell’addizione, a cui si univano due ulteriori edifici di forma quadrata posti a sud, racchiudevano al centro un grande ambiente centrico (in un caso circolare e nell’altro ottagonale), la così detta “sala di compagnia”, preceduto da un monumentale vestibolo d’ingresso. La nuova costruzione sarebbe dovuta sorgere dal lato occidentale del complesso, sull’area occupata da un orto e una piazzetta, quest’ultima adattata a cortile d’ingresso al nosocomio. [LU_4_2_3, LU_4_2_4] Tuttavia, probabilmente a causa dell’eccessivo ammontare dei costi necessari alla realizzazione dell’impresa, il disegno globale è accantonato optando per una meno onerosa riorganizzazione degli spazi esistenti: lo stesso Marracci nel 1832 redige una variante più modesta del progetto iniziale, rinunciando definitivamente alla costruzione di nuovi padiglioni.
Dopo l’esecuzione di quei primi interventi, a distanza di pochi anni il bisogno di nuovi spazi in grado di soddisfare la crescente richiesta di ricoveri si ripresenta con rinnovata urgenza, ma per poter parlare di trasformazioni realmente significative è necessario attendere la seconda metà del secolo. In questa occasione l’incarico esecutivo del progetto viene però affidato all’architetto Giuseppe Pardini a cui è demandata la guida del cantiere per buona parte del secolo.
II fase: 1850-1900 [LU_4_1_5]
architetti/ingegneri: Giuseppe Pardini, Lorenzo Fambrini
alienisti/psichiatri: Giuseppe Neri
L’operato di Pardini a Fregionaia abbraccia buona parte della seconda metà dell’Ottocento intensificandosi dopo il 1860, all’indomani della sua nomina ufficiale a tecnico responsabile degli edifici posseduti dall’Opera Ospedali e Ospizi di Lucca. Tuttavia, i primi interventi dell’architetto sul manicomio risalgono agli anni ’50 e da quel momento egli redige vari e successivi progetti di ampliamento del complesso ospedaliero fra cui l’ultimo, datato 1869, quasi fedelmente realizzato fra il 1870 e il 1876.
Inizialmente gli viene affidato l’incarico di attuare la proposta progettuale già predisposta da Marracci, ma un disegno ritrovato fra le carte dell’architetto rivela un progetto ben più articolato rispetto a quanto previsto dall’ingegnere (i cambiamenti riguardano sopra tutto la parte nord-orientale del complesso, ovvero i corpi edilizi gravitanti attorno ai grandi chiostri). Poi è la stessa amministrazione ospedaliera, nel 1852, a commissionargli con urgenza un nuovo progetto di ristrutturazione e con la presentazione dei primi “11 fogli di piante” il 6 maggio 1853 giunge anche la relativa autorizzazione della Prefettura.
Nella proposta di Pardini lo studio degli aspetti distributivi trae fondamento dall’esame dei caratteri biologici dei malati, classificati secondo il tipo di alienazione mentale e la rispettiva pericolosità, come si evince dalla rigida distinzione dei reparti volta a impedire il contatto dei pazienti meno gravi con quelli ritenuti violenti, ma soprattutto dalla dislocazione dei vari ambienti secondo il grado d’intensità della malattia. Infatti, rispettando comunque la netta separazione fra uomini e donne, dalla monumentale scala di accesso s’incontra prima la zona riservata ai pazienti facoltosi, in grado di pagare una retta maggiore, quindi l’area dei “tranquilli”, nelle ali di nuova costruzione, e infine i locali destinati ai pazienti più gravi dislocati nel cuore dei fabbricati preesistenti.
Questo primo progetto pardiniano è basato sulla creazione di bassi padiglioni i cui corpi principali appaiono caratterizzati ciascuno dalla presenza di un cortile interno e da due bracci simmetrici inglobanti la preesistente struttura ospedaliera a sua volta conclusa verso nord da un’esedra che diviene un ‘luogo’ compositivo fondamentale tanto da essere riproposto anche nelle ipotesi successive (nel dettaglio è evidenziato un sistema di vasche che rinvia ai principi terapeutici della balneoterapia, uno dei metodi più diffusi per calmare i pazienti). [LU_4_2_5, LU_4_3_13] Ampi spazi verdi coltivati dagli internati avrebbero circondato il complesso da ogni lato. [LU_4_2_6, LU_4_2_7] Negli alzati è messo in scena un grandioso complesso di tre piani poggianti su un ulteriore livello interamente scarpato e bugnato a mo’ di bastionato imbasamento di una villa-fortezza, con l’accentuazione del valore di residenza munita tramite il ribadimento delle quattro torri angolari. [LU_4_2_8]
Più fortunato, almeno sul piano della realizzazione, è il secondo progetto redatto nell’agosto del 1854, ugualmente rivolto all’inserimento del preesistente complesso in un sistema sviluppato trasversalmente e articolato a bracci, ipotesi nella quale l’architetto, pur riprendendo l’impostazione del precedente disegno, sebbene tradotto con maggior spoglia severità funzionalistica, sembra farsi sedurre dal desiderio di cimentarsi con un grand batiment, secondo un gusto assai diffuso nella neonata Italia Unita per i grandi edifici pubblici. [LU_4_2_9, LU_4_2_10] Tale articolata eppure unitaria planimetria corrisponde a un sontuoso prospetto sviluppante in altezza ben tre piani, più un attico nel corpo centrale, con un piano terreno ancora concepito a mo’ di monumentale imbasamento bugnato e una movimentata scala a doppia rampa che conduce all’ingresso principale situato al piano nobile. [LU_4_2_11]
Dalle tavole di questa fase progettuale si deduce che la grande esedra semicircolare alta sulla vallata settentrionale e l’innalzamento del padiglione di nord-ovest erano conclusi; ciò è evidente nella pianta del piano terreno in cui si definiscono in rosso gli edifici da realizzare, in giallo le demolizioni e in nero le parti esistenti. Tuttavia il progetto non è portato a termine e Pardini torna a formulare una nuova ipotesi di sistemazione a distanza di quattordici anni.
Nel 1868, nonostante le richieste del direttore dell’ospedale Giuseppe Neri di costruire un’ulteriore struttura all’interno della città di Lucca, ufficialmente respinte nel 1863, l’architetto è incaricato di redigere un terzo progetto, l’ultimo per Fregionaia. Fra le proposte pardiniane questa è sicuramente la più completa e organica: soprattutto acquista nuova luce la grande struttura a mo’ di rotonda addossata al lato nord (adibita a locali per “bagni freddi”, caldi o tiepidi, e “docce”) in cui l’acqua torna ad essere protagonista di quest‘architettura terapeutica.
Il progetto si disvela nell’accrescimento dell’ospedale sia ad est che ad ovest, secondo una disposizione marcatamente simmetrica, con la creazione di due passaggi coperti che danno accesso a quattro corpi di fabbrica, due per parte, da destinarsi al ricovero degli alienati: in particolare, procedendo da ovest verso est, vengono introdotti i reparti per le “clamorose e furiose”, le “epilettiche e paralitiche”, le “infermerie per epilettici”, mentre nell’ultimo settore a est vengono infine disposte sale per la “ricreazione”, sale da lavoro e il refettorio. [LU_4_2_12]
A sud sono invece previsti due nuovi edifici, avanzati rispetto al corpo centrale (che funge da ingresso e filtro) nati dal prolungamento di un fabbricato preesistente comprendente un ampio vestibolo (poi destinato a uffici e locali di rappresentanza), una sala d’aspetto e le sale per i vari medici; i due corpi sopradetti, che seguono l’uso comune secondo cui le donne hanno i loro reparti ad ovest, separati da quelli degli uomini posti a est, si completano con una serie di locali adibiti ad ingresso, vestibolo, spogliatoi, sale d’aspetto etc.
La proposta pardiniana corrisponde ai dettami della normativa e della tecnica ingegneristica e architettonica dell’epoca relativamente agli organismi sanitari rispettando, fra l’altro, l’orientamento dei fabbricati secondo la direzione nord-sud e l’impiego di ampie finestre in grado di assicurare un’areazione e un’illuminazione ottimali. La prima a essere realizzata è l’ala ovest, quella femminile, e l’estratto catastale del 1879 mostra il porticato di raccordo tra i padiglioni posto sull’asse trasversale del complesso. [LU_4_1_7] Si può dunque ipotizzare che nella fase iniziale sono costruiti i padiglioni a doppia T e i relativi portici di collegamento. [LU_4_2_13, LU_4_3_11, LU_4_3_12]
Nel 1877 Pardini predispone, infine, i disegni per l’ampliamento dell’ospedale dal lato est (corrispondente alla sezione degli uomini), affidandone però la direzione a Lorenzo Fambrini che lo porta a termine nel 1882, poco prima della morte del progettista. Anche in questo caso l’estratto di mappa catastale del 1883 rivela alcune differenze con la planimetria generale di progetto, in particolare riguardo le dimensioni del porticato che, infatti, appaiono decisamente maggiori rispetto a quelle previste. [LU_4_1_8, LU_4_3_8, LU_4_3_9]
Come si evince dalla planimetria generale anche l’ultimo progetto pardiniano, al pari di quelli che l’avevano preceduto, vede l’antico impianto accresciuto verso sud (per collocarvi uffici e alloggi degli impiegati) mediante l’addizione di alcuni padiglioni che vanno a racchiudere il chiostrino dell’antico convento entro due ali in grado di conferire un prospetto monumentale a questo lato del complesso (l’architetto elabora molteplici soluzioni che ci sono pervenute sotto forma di studi e ipotesi continuamente aggiornate). [LU_4_1_9] Nodo nevralgico dell’intero complesso rimane il nucleo centrale, coincidente con le preesistenze, riservato ai degenti meno gravi, i “tranquilli” ed i “convalescenti”: da qui, gradualmente, si giunge ai reparti per i “deboli” e gli “infermi”, fino alle estremità, a est e ovest, in cui sono confinati i “furiosi” (per le attività lavorative sono individuati i vani dislocati nei piani seminterrati). [LU_4_2_14]
Ancora oggi l’Ospedale di Fregionaia rispecchia in gran parte tale disegno planimetrico sebbene Fambrini, incaricato della direzione dei lavori nell’ultima parte del secolo, non sia stato del tutto fedele ai dettami di Pardini soprattutto riguardo il completamento degli elementi architettonici (membrature, utilizzo degli ordini e degli elementi decorativi). Infatti, scelte diverse sono state compiute riguardo le questioni estetico-formali, probabilmente a causa delle pressioni delle istituzioni restie a finanziare interventi ritenuti non strettamente indispensabili. Del progetto pardiniano è dunque maggiormente sacrificata quella ricerca di solennità e monumentalità, che avrebbe dovuto caratterizzare soprattutto i prospetti.
III fase: 1900-1999 [LU_4_1_6]
architetti/ingegneri:
alienisti/psichiatri: Mario Tobino
Sull’onda del rilievo assunto dal tema della salute pubblica, come attesta la serie di leggi sulla sanità nazionale promulgate nei decenni successivi all’Unità d’Italia, nuove regole s’impongono per i nosocomi. Stante le ultime disposizioni legislative, soprattutto quelle finalizzate alla creazione di comparti distinti per la trattazione delle diverse patologie, anche a Fregionaia si stabilisce la costruzione di un nuovo padiglione destinato all’osservazione dei ‘presunti’ malati psichiatrici da collocarsi a una certa distanza dal complesso principale, in prossimità dell’ingresso all’area ospedaliera (poi detto “San Cataldo”). In questo modo la struttura sarebbe stata esterna alla zona dei ricoveri evitando così di interferire con le attività del manicomio; le persone poste sotto osservazione potevano quindi restare indisturbate (oltre a essere garantita la privacy si evitava così il rischio del contagio di malattie infettive) e al tempo stesso i pazienti non ne avrebbero risentito.
Sebbene la scelta di realizzare tale edificio risalga ai primi anni del Novecento il permesso di costruire è rilasciato definitivamente solo il 31 dicembre 1939 con alcune prescrizioni quali il divieto d’impiego di parti in cemento armato e ferro (materiali sostituiti “con prodotti naturali o sintetici, di fabbricazione nazionale”) e l’obbligo di risanare l’area da “pollai, porcili e depositi di immondizie”. Il nuovo fabbricato per l’accettazione si articola su tre piani di cui uno parzialmente interrato (ove sono collocati servizi quali stireria, deposito carbone, caldaia), con al piano terreno i locali di accoglienza (accettazione maschile e femminile, sala del medico di guardia e quella per le medicazioni di urgenza, saletta con quattro posti letto per l’osservazione speciale, due tipologie di dormitorio per l’assistenza e per la vigilanza, in base alla gravità) e al primo piano l’assistenza e altri locali tecnici per le visite (radiologia, specialisti). [LU_4_2_15]
Ancora negli stessi anni viene intrapresa la costruzione del padiglione posto a nord del nucleo centrale (d’incerta datazione, ma presumibilmente edificato nel primo decennio del secolo) e ampliata la lavanderia con annessa stazione di disinfezione. In particolare gli interventi intorno a quest’ultima parte del complesso, detta delle “officine”, risalgono al 1919 circa, ma ulteriori modifiche sono apportate negli anni seguenti: nel 1929 è rilasciato un permesso edilizio per la “costruzione di un padiglione per agitati e la sopraelevazione del fabbricato officine”; del 1931 è un’ulteriore licenza per un padiglione destinato a magazzino e dormitorio (rispettivamente al piano terreno e al piano piano). Questi lavori richiesero la demolizione della camera mortuaria ascrivibile al periodo pardiniano: il nuovo obitorio e l’annessa sala per le autopsie sono edificati contemporaneamente in una posizione maggiormente isolata, anche per rispettare le nuove disposizioni di legge. [LU_4_3_14, LU_4_3_15]
L’intero complesso subisce una riorganizzazione generale: accanto alle continue opere di manutenzione degli immobili sono condotte migliorie quali la realizzazione di tre pozzi Norton (per rimediare alla carenza di acqua nei mesi estivi) o l’installazione del riscaldamento a vapore in tutto l’ospedale (un locale costruito nel 1918 è utilizzato come deposito per la legna). Ma è l’utilizzo di nuove terapie a richiedere un appropriato adeguamento dei reparti e soprattutto l’erezione di altri padiglioni destinati ad accogliere le diverse tipologie di malati: in particolare uno per i malati cronici (per i quali era escluso un miglioramento), collocato nel 1927 nei locali dell’ex forno (allorquando questo è trasferito nella nuova destinazione) e altri due per l’isolamento dei pazienti affetti da malattie infettive quali la tubercolosi (il primo, risalente al 1913, è collocato a nord-ovest della struttura principale: nato per accogliere entrambi i sessi viene destinato ai soli uomini con la creazione del padiglione femminile dieci anni più tardi).
Seguono altri padiglioni tra cui l’edificio per i ragazzi, a nord del braccio femminile, presumibilmente eretto intorno al 1931, cui segue il fabbricato per i bambini (non solo quelli affetti da disturbi, ma anche i figli dei pazienti), vicino alla colonia agricola (smantellata nel 1939 per la realizzazione del comparto d’osservazione), in una posizione isolata rispetto al nosocomio (l’istituto “medico pedagogico”, come fu chiamato allora, corrisponde all’attuale padiglione “Santa Maria”). [LU_4_3_16] Quest’ultima struttura, trattandosi di un istituto finalizzato all’educazione dei minori, presenta un’organizzazione interna completamente diversa: al primo piano è collocata la zona notte, organizzata secondo tre tipi di camere (singola, per quattro persone e per venti) e una sola camera destinata alla suora-sorvegliante; il piano terreno è destinato alle attività ricreative svolte in due grandi aule (in queste scelte è evidente il richiamo al pensiero di Freud sulla necessità di interagire con i bambini attraverso il gioco e le attività ricreative).
A corredo degli edifici maggiori si uniscono una serie di manufatti di servizio quali il forno (1927, poi ampliato dopo tre anni) e una nuova stalla (1931); nella stessa area è costruito un nuovo padiglione adibito a dormitorio per i pazienti in grado, in virtù della loro scarsa pericolosità, di lavorare nei campi o a contatto con gli animali (1934).
Sul finire degli anni Sessanta, grazie anche alle recenti disposizioni legislative e alla diversa organizzazione della vita manicomiale, l’ospedale si adatta a divenire sempre più un luogo di solidarietà oltre che di cura. Per rispondere alle mutate esigenze è realizzato un nuovo edificio denominato “Padiglione Vedrani”, (dal medico che si occupa della sua organizzazione): la struttura nasce con lo scopo di accogliere durante la notte i pazienti ritenuti innocui per la società e quindi impegnati in mansioni lavorative. La struttura, sul modello dell’istituto per i bambini, ospita al primo piano le camere e al piano terreno la zona giorno per le attività terapeutiche di gruppo e i laboratori (alcuni locali medici e altri per il personale di controllo garantiscono comunque la sorveglianza).
Il padiglione viene completato a breve distanza dalla promulgazione della Legge Basaglia che decreta la chiusura dei manicomi italiani (1978). Nel caso di Maggiano le procedure per la cessazione delle sue attività terminano nel 1999.
impianto
a blocco articolato con padiglioni isolati
corpi edilizi
blocco articolato a tre e quattro piani; padiglioni isolati a due, tre e quattro piani
strutture
strutture in elevazione: muratura ordinaria perlopiù in laterizio o in pietrame
orizzontamenti: solai in legno o in latero-cemento
coperture: tetti a padiglione e a capanna perlopiù con orditura lignea e manto di rivestimento in laterizio (coppi ed embrici) o con struttura in latero-cemento e copertura in marsigliesi
ottimo
buono Palazzina uffici (sede della Fondazione Tobino); padiglione San Cataldo
medio
cattivo la maggior parte degli edifici
pessimo
rovina
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FONDAZIONE CARLO MARCHI DI FIRENZE, Fondo Giuseppe Pardini.
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