“Pazzeria” nell’Ospedale degli Incurabili a Napoli (1519)
Convento dei Cappuccini al Monte, Aversa, via dei Cappuccini (1813-1852)
Convento di Montevergine, Aversa, via Vittorio Emanuele III (1821-1910)
Convento di Sant’Agostino degli Scalzi, Aversa, via Filippo Saporito (1837-1974)
Le “Reali Case de’ matti”, fondate con Regio Decreto n. 10137/3 dell’11 marzo 1813, nascono dalla trasformazione di precedenti sedi religiose. L’esigenza di una struttura dedicata esclusivamente al ricovero, cura e riabilitazione dei malati di mente si era resa necessaria a causa dell’inadeguatezza della “pazzeria” ubicata nel cinquecentesco ospedale napoletano degli Incurabili - il maggiore asilo medico pubblico, sia per dementi, sia per criminali giudicati folli - ormai da moltissimo tempo in deplorevoli condizioni igienico-sanitarie. La questione di una sede più adeguata, avanzata già in epoca borbonica, trova la sua risoluzione durante il governo francese, quando con Gioacchino Murat si opera una concreta sistemazione del regime sanitario dei manicomi, si avvia il decentramento delle strutture manicomiali in ciascun capoluogo delle province del Regno e, parallelamente, si procede al riuso dei complessi conventuali espropriati a seguito delle leggi eversive.
Dopo aver attentamente vagliato altre sedi, tra cui la Casa della Torre del Greco – già succursale dell’Ospedale degli Incurabili – e la Badia dei Verginiani di Casamarciano, la Real Casa dei Matti è dunque stabilita ad Aversa, poiché l’area individuata rispondeva ai principali requisiti richiesti dal dibattito sanitario che, tra l’altro, indicava come preferenziale un luogo esterno al perimetro urbano ma ben collegato alla città. Il primo nucleo viene appunto istituito nel confiscato convento dei frati Osservanti sotto il titolo della Maddalena, al quale già il 10 giugno successivo è annesso quello dei Cappuccini al Monte, come prima succursale per le donne. Su indicazione del ministro dell’Interno Giuseppe Zurlo, la loro direzione è affidata all’abate Giovanni Maria Linguiti, giurista e teologo di origine sannita, in virtù dei suoi studi sul trattamento dei folli.
L’istituzione aversana, diventata presto la più importante del Regno delle Due Sicilie e tra quelle all’avanguardia in Europa, già tra il 1816 e il 1817 non ha spazio sufficiente per far fronte ai numerosissimi e costanti ricoveri; inoltre, la localizzazione prescelta rivela tutti gli svantaggi del clima umido aversano, sicché, su indicazione del direttore Linguiti, si propone di creare a Napoli una più idonea struttura. Naufragata l’ipotesi, nel 1821, è invece aperta la succursale nel dismesso convento di Montevergine, dove vengono trasferite le donne folli, finché nel 1837 è annesso anche quello di Sant’Agostino degli Scalzi, prescelto per la duplice funzione di ospedale per i detenuti infermi e per la reclusione promiscua di 200 matti.
I fase: 1813- 1831 [CE_4_1_3]
architetti/ingegneri: non accertati
alienisti/psichiatri: Giovanni Maria Linguiti, Giuseppe Invitti Sacco, Alessandro Carotenuto
A Giovanni Maria Linguiti, primo direttore dal 1813 al 1825, si devono iniziali interventi di adeguamento della Casa madre, finalizzati alla definizione di un ambiente rasserenante, foriero di tranquillità, dove richiamare i simboli di quella vita quotidiana “esterna” negata agli alienati. Si provvede, cioè, essenzialmente alla riorganizzazione degli ambienti conventuali, basandosi sul principio della netta separazione sia tra donne e uomini, sia tra le diverse tipologie di demenza; alla messa in sicurezza degli ambienti di degenza; alla distribuzione delle postazioni per la sorveglianza e si aumentano i servizi igienici, rendendoli più agevolmente raggiungibili. Si procede, poi, a ridurre il numero delle celle di isolamento a vantaggio di maggiori spazi per attività lavorative e ludiche, tra cui una stamperia, una sala per la musica, una per il biliardo e quella delle “distrazioni”, un teatro e ambienti comuni, in alcuni dei quali si apportano originali innovazioni, come trompe l’oeil, per rievocare scene campestri e rappresentazioni che inducano a “ilarità”. Il manicomio, inoltre, è dotato di ampi orti, aree verdi per salubri passeggiate e giardini dalla regolare quadripartitura a parterre [CE_4_2_1].
II fase: 1831-1876 [CE_4_1_3]
architetti/ingegneri: Nicola Stassano, Giacomo Gentile, [?] De Echaniz
alienisti/psichiatri: Giuseppe Simoneschi, Biagio Miraglia, Francesco Maria Borrelli, Federico Cleopazzo, Federico Federi
Dal 1831, con la direzione di Giuseppe Simoneschi, mentre i lavori di adeguamento procedono con molta lentezza, si avvia il maggiore intervento edilizio di ampliamento e trasformazione delle Reali Case de’ Matti, il cui progetto è affidato nel 1843 all’architetto Nicola Stassano, che è guidato dalle indicazioni scientifiche del medico alienista Biagio Miraglia. L’obiettivo è conservare la chiesa medievale e ampliare il primitivo impianto conventuale con “semplici linee”, vale a dire secondo addizioni rettangolari impostate su una maglia regolare, per ospitare oltre 700 “individui”. In particolare, rispettando l’originario orientamento della facciata principale verso est, si prevede di affiancare al chiostro principale undici ampi cortili interni rettangolari porticati [CE_4_2_2; CE_4_2_3].
La distribuzione e l’aggregazione degli spazi si basa sulla separazione degli ammalati in sezioni distinte secondo il sesso e le differenti patologie mentali e sulla stretta interrelazione tra locali per le attività terapeutiche e aree esterne. Sono, inoltre, introdotte sezioni pedagogiche, una scuola religiosa “primaria, scientifica, artistica” e “stabilimenti” per le attività industriali, artigianali e per il lavoro agricolo, mentre ai giardini è assegnata notevole importanza nel processo di recupero degli alienati. Senza demolire le preesistenti fabbriche, si stabilisce la continuità con le strutture del convento, ricorrendo a un sistema di addizione modulare dei nuovi corpi, in modo da includere il primitivo impianto nello sviluppo regolare e ortogonale della planimetria dalla singolare forma a “T”, scandita da una serrata sequenza di ambienti facilmente adeguabili a eventuali mutamenti delle destinazioni d’uso, dei programmi terapeutici o delle disposizioni legislative. Si apportano importanti innovazioni agli strumenti di contenzione (letti, bagni) ma, su espressa indicazione di Simoneschi, si demolisce il teatro, spazio caro al processo riabilitativo perseguito da Linguiti e, al suo posto, è costruita una vasta sala per accogliere gli infermi.
I lavori iniziano nel 1845, procedendo, tuttavia, con alterne vicende, soprattutto dopo il 1848, anno in cui Miraglia è allontanato per aver aderito ai moti liberali. Tuttavia, è da ritenere che fosse ormai completa gran parte del lato orientale e, in particolare, quel corpo di fabbrica, annesso al convento in corrispondenza della facciata e chiuso intorno ai due cortili rettangolari minori, che avrebbe dovuto costituire il prospetto anteriore del nuovo edificio. Il resto del progetto, però, non verrà mai portato a termine.
Durante la direzione del medico Federico Cleopazzo, sulla scorta di tre rescritti reali del 20 novembre 1853, 11 giugno 1856 e 15 luglio 1857, si spende la “vistosa somma” di 97.984,87 ducati “per opere eseguite in economia” e, nel 1858, il governo autorizza di erogarne altri 33.603,80. Durante questo decennio, infatti, dopo aver ristrutturato gli ambienti insalubri, si provvede a garantire la sicurezza delle sale di degenza, dove si eliminano le sporgenze dei pilastri dalle pareti, lungo le quali erano affiancati i letti, si ridistribuiscono le postazioni per la sorveglianza, si aumentano ulteriormente i servizi igienici, si rivestono le pareti, si completano le rifiniture degli interni e della facciata e, al posto delle grate in ferro, si realizzano telai in legno, perché, specifica l’architetto, la loro forma “non attristi affatto il carattere del fabbricato”. Nel 1858, si acquista un moggio di proprietà di Raffaele Di Martino, limitrofo all’area settentrionale dell’ampliamento.
Nel 1860, a seguito di evidenti problemi strutturali, si avviano urgenti opere di consolidamento nell’“antico locale della Maddalena” e, in particolare, nel grande dormitorio dislocato al primo piano nell’ala orientale del primo cortile.
Nel 1860, con il ritorno di Biagio Miraglia in qualità di direttore, si intensificano i lavori, ma l’alienista propone una revisione di quanto aveva indicato nel 1843, adattando al complesso della Maddalena il progetto-modello di manicomio italiano, anche questo redatto con la collaborazione di Stassano per la parte tecnica. Distribuiti i malati in otto distinti “quartieri”, uno per ciascuna delle classi – o “famiglie”, come le definisce il medico – in cui aveva suddiviso le manifestazioni della follia, separa i malati per sesso in due stabilimenti tra loro confinanti per mezzo di rispettivi giardini e comunicanti con viali interni [CE_4_2_4]. Alla sezione muliebre è assegnato un nuovo e più ampio edificio, tale da ospitare almeno 300 alienate, tra cui quelle ricoverate presso la sede succursale del monastero dei Cappuccini al Monte, oramai inadatto, insalubre e insufficiente. A redigere la nuova soluzione è chiamato ancora una volta Nicola Stassano, che nel 1862 disegna una pianta rettangolare con due vasti cortili interni e celle disposte lungo i lati. La facciata, rivolta a Mezzogiorno, è delineata secondo una scansione architettonica le cui partiture si legano a quelle della Casa Madre per la continuità formale del registro decorativo. Nel 1866, la proposta, insieme a quella per il recupero strutturale della Casa ausiliare di S. Agostino, ottiene l’approvazione sia della Commissione Amministrativa, sia di quella Medica, ma l’edificio per sole donne non verrà mai realizzato.
Intanto, alla Maddalena, Stassano riprende la sua idea iniziale di costruire il corpo di fabbrica ortogonalmente rispetto all’impianto principale e di articolarlo intorno a due ampi giardini rettangolari, tuttavia, lo modifica in un compatto blocco edilizio, quadripartito da corti interne per altrettanti “quartieri”, dove alloggiare quattro diverse “famiglie di matti”. Per garantire il soleggiamento e la corretta aerazione di tutti gli ambienti, organizza la nuova struttura su due livelli, ma riduce il numero di servizi sanitari, al punto da lasciarne solo uno per ciascun piano e, per maggiore igiene, preferisce il sistema dei wc mobili. Inoltre, ripristina l’antico teatro – voluto da Linguiti e soppresso durante la direzione di Simoneschi – che viene aperto al pubblico nel 1864. Le opere preventivate, però, subiscono presto un considerevole rallentamento, quasi certamente per la scarsezza delle risorse economiche, al punto che, nel 1869, anno delle dimissioni di Miraglia, la struttura versa in un profondo stato di abbandono.
Di fatto, prima della nomina del nuovo direttore, che interviene solo due anni dopo, si ingrandiscono alcuni ambienti al secondo livello, sopra il salone un tempo adibito a refettorio, a sua volta consolidato nel 1871 e trasformato in un sala di trattenimento dei folli. Inoltre, si eliminano le celle situate nel corridoio vicino al coretto della chiesa, ormai “luride”, se ne costruiscono altre più areate e si realizzano comode e ampie sale nell’estensione occidentale, da destinare alle attività ludiche e a quelle lavorative.
Tra il 1871 e il 1876, durante la breve gestione di Federico Federi, il travagliato iter dei lavori vive una fase più intensa: maggiore impegno è riservato a migliorare le condizioni igieniche dell’edificio principale e a terminare il sistema idrico e fognario nei nuovi corpi di fabbrica.
Accanto alle nuove opere eseguite, tra cui il refettorio grande e le cucine, si programma la costruzione di otto “comode abitazioni” per i degenti a pensione e un più grande dormitorio, meglio areato. Poichè da una relazione presentata dalla Commissione amministrativa alla Deputazione provinciale si evince che la struttura aversana risulta ancora carente di “quartieri”, giardini, adeguate sale da lavoro e magazzini, è da ritenere che si apportino diverse modifiche alla soluzione di Stassano, di cui sono ormai pronti i corpi di fabbrica di tre sezioni. Nel 1872, così, si redigono due progetti “generali” di ampliamento. Agli inizi degli anni Settanta, si delega l’architetto Giacomo Gentile a continuare il restauro e l’ampliamento dell’antica infermeria, iniziati l’anno prima.
Nonostante l’impegno profuso da Miraglia, da Fideri e dai tecnici impegnati nei lavori della Casa Madre, l’idea iniziale di Stassano subisce notevoli riduzioni. Scarse risorse finanziarie e, al tempo stesso, sprechi economici, costante afflusso di ricoveri, urgenza di continui interventi di consolidamento per la vetustà delle strutture preesistenti, conducono al completamento solo del corpo posteriore, di quello a delimitazione dell’ampio cortile interno e del prolungamento della facciata principale con la sua definizione formale dall’austero linguaggio neoclassico. Questa, sovrastata da un basso timpano sormontato da sculture di mediocre qualità artistica, è scandita da un partito di bucature disposte su due livelli e da un basamento in bugnato, dal marcato valore chiaroscurale, che, con un disegno unitario ribadito sui restanti lati, avrebbe dovuto uniformare il precedente edificio claustrale e le nuove strutture.
Delineata sin dal progetto del 1843, la monumentalità dei prospetti, inoltre, avrebbe dovuto contribuire ad allontanare tanto il ricordo della preesistenza conventuale, quanto l’idea del manicomio, anticipando di quasi dieci anni quanto, prima, indicherà Parchappe nel 1853 e, poi, sperimenterà Gaetano Castelli nel 1877 con la proposta di un “Manicomio per Cinquecento infermi”.
III fase: 1876-1905 [CE_4_1_3]
architetti/ingegneri: Nicola Stassano
alienisti/psichiatri: Gaspare Virgilio
Nel 1876, con la nomina di Gaspare Virgilio a direttore, si registra una svolta verso una tipologia differente: dal principio dell’edificio unico si passa a una struttura mista distribuita in padiglioni, ciascuno dei quali, separato e organizzato come un “quartiere” indipendente, è dotato di refettorio, sale comuni e laboratori per attività lavorative.
L’ormai maturo dibattito medico, che aveva visto alcune delle sue principali tappe nel modello a padiglioni sperimentato da Francesco Azzurri sin dal 1859 a Roma, nello “schema a villaggio” descritto nel 1862 da Carlo Livi e nel complesso manicomiale di Imola, progettato tra il 1868 e il 1869 da Luigi Lolli e Antonio Cipolla, in questi anni trova una importante riformulazione nel Congresso della Società Freniatrica, tenutosi proprio ad Aversa nel 1877, durante il quale l’attenzione alla definizione della tipologia manicomiale è tra i temi prioritari. Superata la struttura unica, preferita da Domenico Gualandi e Miraglia, si è ora orientati verso la distribuzione dei dementi in edifici sviluppati su uno o due piani, dalle dimensioni e volumetrie modeste, tra loro distanziati e connessi da percorsi articolati tra viali alberati, parterre fioriti e aree agresti.
Il programma di Virgilio, dunque, nella complessità delle condizioni igienico-sanitarie e delle difficoltà economiche, si affianca e riflette le trasformazioni scientifico-culturali in atto, coniugando ciò che restava nello stabilimento centrale del progetto di Stassano - con le celle, i quartini per i dementi e le sale di ricreazione – alla costruzione di padiglioni per il ricovero di omogenee classi di demenza, per le lavanderie e per i depositi.
Acquistate aree circostanti come premessa per l’insediamento di nuovi quartieri, si costruisce prima quello delle “agitate”, poi, delle “sudice”, quindi, quello degli uomini “semitranquilli”, e, infine, degli uomini “sudici”; alle donne “semitranquille” sono invece riservati i locali dell’edificio principale, lasciati liberi dal trasferimento degli uomini [CE_4_2_5]. Si interviene in alcuni settori maggiormente degradati, si introducono fogne mobili da svuotare periodicamente e si migliora il sistema idrico per garantire l’approvvigionamento d’acqua corrente in tutte le sezioni.
Nel 1877, il cantiere registra un considerevole impulso e, concluso l’Osservatorio meteorico nel 1878, quando erano ormai terminati anche i lavori ai quartini dei pensionati, si affida a Stassano il progetto dei fabbricati per “pericolosi e turbolenti”, che, però, saranno pronti solo nel 1885, insieme alla sezione per gli “agitati” [CE_4_2_6]. L’architetto prevede anche lavori per l’adeguamento di alcuni locali a sala per il biliardo e a “tessitoria”, per trasformare la tesoreria in una nuova farmacia, la tipografia in refettorio e il guardaroba nella sala di musica, uno dei principali obiettivi del programma di Virgilio. In quello stesso anno, avvalendosi della legge del 25 giugno 1865, si provvede all’acquisto di diversi fondi rustici per ampliare lo spazio verde circostante. Si realizza un più moderno sistema di illuminazione con impianto a gas e con punti luce in posizione non raggiungibile dai degenti, si aboliscono i letti di contenzione e si sostituiscono i materassi di paglia. Infine, nel 1878, si procede all’esproprio dei primi 15 moggi di terreni limitrofi e, nel 1880, a seguito soprattutto di quanto era emerso l’anno prima dal secondo Congresso della Società Freniatrica, sulla scorta delle positive esperienze di ergoterapia, già prospettate da Linguiti e sperimentate da Miraglia, si avvia la realizzazione della cosiddetta Colonia agricola, argomento di confronto nel convegno successivo che si stava svolgendo a Reggio Emilia e, successivamente, nel 1881, previsto nel bando di concorso per un “Progetto di Manicomio per pazzi poveri”, pubblicato da numerose riviste specialistiche.
La vasta area da destinare alla coltivazione, che può considerarsi la maggiore innovazione apportata al progetto iniziale, coerentemente a quanto suggeriva il programma di Bonfigli, Lolli, Spatuzzi, Taburini e Virgilio, si fonda sul principio che la coltivazione sia un’efficace cura per quei mentecatti maggiormente versati in tali attività o, di contro, non idonei a svolgere alcun altro tipo di lavoro.
Nel 1887 la Commissione approva il progetto di Stassano e diversi locali al piano terra dell’edificio centrale sono trasformati per realizzare la cella mortuaria, una nuova farmacia con laboratorio e il teatro anatomico, in cui verranno conservati ed esposti in mostra i crani di folli, per lo più criminali; si costruiscono anche i primi padiglioni isolati, tra i quali le sezioni Verga, Livi e Chiarugi, avvicinando il morotrofio di Aversa ai più accreditati modelli di “manicomio a villaggio” d’Italia [CE_4_2_7; CE_4_2_8].
IV fase: 1906-1946 [CE_4_1_3]
architetti/ingegneri: non accertati
alienisti/psichiatri: Giovanni Motti, Onofrio Fragnito, Eugenio La Pegna, Francesco Vizioli
Nel 1905, alle dimissioni di Virgilio il suo posto è affidato fino al 1907 alla reggenza di Giovanni Motti, cui è ascrivibile soprattutto il completamento del teatro anatomico, poi, per un triennio, l’incarico di direttore è assegnato a Onofrio Fragnito.
Nel 1906, a seguito della legge n.36 del 14 febbraio 1904, ad Aversa è ratificato e adottato il regolamento speciale locale. Si procede, così, anche alla ristrutturazione degli edifici, alla costruzione di nuovi corpi di fabbrica e alla riconfigurazione architettonica dell’impianto generale esterno. Inaugurato il 10 novembre 1904, il padiglione destinato alla sezione delle semitranquille e a quella delle agitate criminali sarà dedicato a Virgilio, dopo la sua morte. [CE_4_3_2]
Nel 1910 è nominato direttore l’alienista Eugenio La Pegna, che promuove una più estesa rete fognaria, la “modernizzazione” della lavanderia, l’estensione della Colonia agricola e la costruzione dei padiglioni Buonomo e Leonardo Bianchi, realizzati in calcestruzzo armato su un analogo impianto planimetrico a “H” e con ampi ambienti duttili, facilmente suddivisibili all’occorrenza, che rappresentano una svolta verso la moderna tipologia dell’ospedale psichiatrico, dove le condizioni igienico-sanitarie costituiscono un primario obiettivo progettuale al pari della sicurezza della reclusione [CE_4_3_3; CE_4_3_4; CE_4_3_5; CE_4_3_6].
Nel 1939 si ristruttura il padiglione Virgilio, da tempo inadeguato ai continui ricoveri, si interviene sia con lavori di manutenzione ordinaria, sia per far fronte alle condizioni insalubri aggravate dall’eccessivo affollamento di degenti e si costruiscono due “trattenimenti” coperti. In quello stesso anno, senza successo, si programma di costruire un tubercolosario per pazienti folli, adeguando, prima, la sezione Buonomo, poi, il piano terra del Bianchi, trasformandolo. Con Francesco Vizioli si termina la sopraelevazione della sezione Virgilio e l’edificazione dell’ampio dormitorio nella sezione agricola per i “ricoverati lavoratori”.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale peggiora lo stato di abbandono della struttura, che, inoltre, subisce ingenti danni per il bombardamento della notte del 19 luglio 1943. In questo stesso anno, le forze alleate anglo-americane requisiscono la sezione Miraglia per alloggiarvi una deputazione militare. Nel dopoguerra, nel retro dell’edificio principale sono creati spazi comuni adibiti a orto sperimentale, un campo di pallacanestro e uno di bocce; al piano terra è costruita una nuova cappella, al primo, l’infermeria per otto degenti e, al secondo, si realizzano una biblioteca e una più moderna infermeria.
V fase: 1947-2012 [CE_4_1_3]
architetti/ingegneri: Michele Buccico, Marcello Lucia, Gaetano Salzano, Antonio Marfuggi, Francesco Santoli, Raffaele Argo, Marcello Carlo Pignalosa
alienisti/psichiatri: Clemente Enselmi, Annibale Puca, Vittorio Donato Catapano, Giacomo Cascella, Vincenzo Fabozzi, Renato Buffardi
Nel 1947, durante la direzione di Clemente Enselmi, il Reale Manicomio assume la denominazione di “Ospedale Psichiatrico Santa Maria Maddalena” e, sulla base di una perizia del 19 novembre 1946, si pianificano cospicui lavori, che proseguiranno fino agli inizi degli anni Sessanta, rivolti soprattutto a ovviare agli ingenti danni bellici: si riparano la chiesa ed alcuni padiglioni, tra cui il Bianchi e il Virgilio, si costruisce una lavanderia meccanica dotata di impianto per il riscaldamento [CE_4_2_9], un pozzo semiartesiano, iniziano i lavori per un pensionato; si ripristinano il cronicario e la Colonia agricola, dove, tra l’altro, si realizzano un bacino per le vacche (1950), un nuovo impianto di irrigazione (1951-52) e, dagli anni sessanta, una vaccheria, un porcile e un pozzo assorbente.
Nel 1950, il padiglione Buonomo è oggetto di un progetto per adibire l’infermeria maschile a gabinetto di malariologia; nel 1955 si sistema il viale di accesso ai padiglioni Livi e Chiarugi; l’anno dopo si costruiscono il refettorio e la cucina per l’alloggio delle suore. Dalla fine degli anni Cinquanta si realizzano una nuova linea elettrica a forza motrice e l’impianto idrico; nel 1958, viene redatto un progetto per sopraelevare il reparto di “folli tranquilli”, attrezzandolo con sala mensa e un altro per l’ampliamento e il restauro del padiglione Verga, che prevede, tra l’altro, nel 1960, la ripavimentazione dell’intera struttura, la messa in opera di nuovi impianti elettrici, idrici, di riscaldamento e di smaltimento fognario, il ripristino e il consolidamento del tetto e, nel 1961, la costruzione del massetto, rifinito con pavimentazione di lastre di marmo. Tra il 1960 e il 1962, si completano la tinteggiatura degli interni e il restauro della facciata; si costruiscono parapetti di “difesa” e barriere metalliche, mentre l’anno dopo si prolunga il pozzo. In questo stesso decennio si registra un vivace fermento edilizio per continuare l’ampliamento a padiglioni [CE_4_2_10; CE_4_2_11; CE_4_2_12; CE_4_2_13] ripristinati nel 1963 gli alloggi dei tranquilli ubicati al secondo piano della Casa centrale, l’anno dopo, infatti, si programma di realizzare un nuovo refettorio, di migliorare quello dell’ala occidentale, di estendere il “reparto semitranquilli”, di sopraelevare la parte centrale (1960-1962), per cui si restaura anche la facciata principale (1962) e si introducono impianti di acqua calda nei bagni (1962). Dalla metà degli anni Sessanta, il padiglione Chiarugi è dotato di un più moderno impianto idrico e di una ulteriore sala per “medicature”; finché, nel 1967, si redige il progetto di ampliamento del monoblocco B e, nel 1969, quello per il monoblocco A, per la realizzazione dei quali si procede all’esproprio di nuovi suoli. Nel 1971, è approvato l’inizio dei lavori di completamento e di ristrutturazione ma, dal 1972, nonostante fossero stati già eseguiti i collaudi dei primi lotti di lavori, i progetti di entrambi gli edifici sono oggetto di diverse soluzioni, cui seguono varianti che ne ridimensionano l’idea iniziale [CE_4_2_14; CE_4_2_15; CE_4_2_16; CE_4_2_17; CE_4_2_18].
In realtà, a partire dal 1970, si elaborano diversi programmi di ristrutturazione e ampliamento, ma l’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria Maddalena inizia a risentire dell’ondata di rinnovamento che stava coinvolgendo le strutture manicomiali a seguito dell’azione promossa da Franco Basaglia, poi confluita nella nota legge n.180 del 13 maggio 1978. Nonostante il numero dei ricoverati si fosse oramai sensibilmente ridotto, l’istituzione aversana è amministrativamente suddivisa in due unità, affidate agli alienisti Giacomo Cascella e Vittorio Catapano: la “G.M. Linguiti” - cui appartenevano la Casa centrale, le sezioni Livi e Chiarugi, l’infermeria delle donne e l’alloggio delle suore - e la “B.G. Miraglia”, con le sezioni Bianchi e Virgilio, la lavanderia e i due blocchi A e B.
Già prima dell’applicazione legislativa, all’interno dell’edificio principale vengono insediate alcune sezioni dell’USL 20, finché, negli anni successivi, è qui istituito l’archivio storico dell’ex Ospedale psichiatrico con il suo intero patrimonio librario. L’Ospedale psichiatrico, svuotato nel 1998, chiude l’anno dopo e si avvia in una fase di assoluta incuria e declino [CE_4_3_7; CE_4_3_10; CE_4_3_11; CE_4_3_12; CE_4_3_13].
Nei vari padiglioni ancora agibili, troveranno invece posto diverse attività estranee al servizio psichiatrico, quali servizi socio-sanitari (medicina legale, DSM, SERT, commissioni invalidi civili, uffici amministrativi ASL) un centro di recupero per i tossicodipendenti, attrezzature per il tempo libero, un bar e l’archivio storico. Oggi, la maggior parte degli ambienti del corpo centrale sono completamente fatiscenti; la chiesa, con i pregevoli stucchi e frequentemente saccheggiata dei quadri e degli arredi sacri, è stata chiusa al pubblico perché dichiarata inagibile a causa di dissesti statici e di continue infiltrazioni d’acqua [CE_4_3_9]. La stessa sorte è toccata ai locali del primo e secondo livello, mentre la vegetazione selvatica ha invaso i chiostri e i corridoi del piano terra [CE_4_3_8; CE_4_3_14; CE_4_3_15]. Dal 2013 è in corso di definizione un protocollo di intesa tra il Comune di Aversa, l’ASL di Caserta e la Seconda Università degli studi di Napoli per uno studio finalizzato al recupero del complesso di S. Maria Maddalena e dell’area circostante.
impianto
a blocco e a padiglioni isolati
corpi edilizi
fabbricato centrale e padiglione Livi: pianta a “U”, su tre piani fuori terra
ex padiglione Bianchi: pianta a “U”, con un solo piano fuori terra
padiglione Chiarugi: pianta a “L”, su due piani fuori terra
padiglioni Puca, Virgilio, Verga e Villa Motti: pianta rettangolare, su due piani fuori terra
monoblocchi “A” e “B”: pianta rettangolare; due piani fuori terra e un seminterrato di collegamento con l’altro monoblocco
padiglione Buonomo: pianta a “H”, con un solo piano fuori terra
padiglione L. Bianchi: pianta a “H”, con seminterrato e due piani fuori terra
spogliatoi (ex campo lavoro): pianta a “C”, con un solo piano fuori terra
forno-bar, autorimessa, deposito: pianta rettangolare, con un solo piano fuori terra
ex lavanderia, falegnameria: pianta a “L”, con un solo piano fuori terra
strutture
strutture in elevazione: muratura di tufo giallo campano; c.a. con blocchetti in muratura di tufo
orizzontamenti: a volta; solai in ferro e laterocementizi
coperture: tetto a due falde con strutture in legno e manto con tegole alla romana di coppi e pianelle; a copertura piana
ottimo (monoblocchi “A” e “B”)
buono (autorimessa)
medio (padiglione L. Bianchi; deposito forno-bar; Villa Motti; ex Lavanderia; falegnameria)
cattivo (padiglioni Chiarugi, Puca, Virgilio, Buonomo, Ex Bianchi, Verga; spogliatoi-ex campo lavoro)
pessimo (fabbricato centrale e padiglione Livi)
D. Gualandi, Osservazioni sopra il celebre Stabilimento d’Aversa nel Regno di Napoli, e sopra molti altri Spedali d’Italia destinati alla reclusione e cura de’ pazzi, con alcune considerazioni sopra i perfezionamenti di che sembra suscettivo questo genere di Stabilimenti, Tipografia de’ Fratelli Masi, Bologna 1823
L. Ferrarese, Annali di osservazioni cliniche delle RR. Case de' Folli situate nella città di Aversa, Del Vecchio, Napoli 1839
A. A. Rossi, Degli ospizi de’ folli e specialmente di quelli che sono nella nostra città di Aversa, in “Annali Civili del Regno delle Due Sicilie”, fasc. LVII, maggio-giugno 1842
B.G. Miraglia, Progetto di uno stabilimento di alienati pel Regno di Napoli, Tipografia del Real Morotrofio, Aversa 1849
G. Simoneschi, Memorando intorno alle manifatture che si esercitano in Aversa dagli Alienati di mente, nelle quali quest’infelici furono ammaestrati e tutti dì si ammaestrano, Tipografia del Real Morotrofio, Aversa 1850
N. Stassano, Progetto di ampliamento e restauro del Real Morotrofio della Maddalena di Aversa dell’architetto Nicola Stassano, Stabilimento Tipografico di Gaetano Nobile, Napoli 1856
G. Parente, Origini e vicende ecclesiastiche della Città di Aversa. Frammenti storici, Gaetano Cardamone, Napoli 1857-58
B.G. Miraglia, Programma di un manicomio modello italiano seguito dall’applicazione dei precetti del programma alle riforme del Real Morotrofio di Aversa, Tipografia del Real Morotrofio, Aversa 1861
N. Stassano, Progetto del Real Manicomio in Aversa per l’architetto Nicola Stassano sul programma del direttore signor Miraglia, Stabilimento Tipografico di Gaetano Nobile, Napoli 1862
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Biblioteca Comunale di Aversa “G. Parente”
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