Real Casa dei Matti in Aversa (1813-1881)
Ospizio di San Benedetto in Pesaro (1829-1881)
Manicomio Provinciale di Santa Croce a Macerata (1871-1881)
Colonia Agricola verso Giulianova (1905)
Asilo fuori Porta Romana a Teramo (1910)
Succursale presso la Colonia Marina di Giulianova (1927)
Sede distaccata nell’ex convento delle Suore della Carità di Campli (1929)
Succursale per la popolazione maschile in località Casalena di Teramo (1974)
La struttura psichiatrica di Teramo nasce nel 1881 come reparto aggregato all’Ospedale civile della città collocato all’interno delle vecchie fabbriche del convento di Sant’Antonio Abate [TE_4_2_1]. La storiografia locale riconosce nell’attrezzatura religiosa il nucleo originario del servizio di assistenza sanitaria alla realtà urbana e territoriale fin dagli inizi del XIV secolo, identificando in quel Santo patrono, in sintonia con gli indirizzi economici maturati dal trattamento delle risorse agricole e di allevamento del bestiame, il simbolo cui dedicare lo strumento di sostegno della salute pubblica, gestito direttamente dal Capitolo della Cattedrale, al quale subentra, nel secondo Ottocento, la Congregazione di Carità, con significative ricadute sulle modalità di amministrazione del proprio patrimonio, anche edilizio. Degli spazi antichi appartenenti al nucleo primigenio del complesso religioso restano tracce architettoniche chiaramente riconoscibili nel piano terra di uno dei corpi edilizi che prospettano su via del Baluardo (nei settori di fabbrica che insistono tra i civici 3 e 5) con due volumi paralleli dalla configurazione di chiusura a volta a botte e con pronunciati spessori murari aggregati, sullo stesso fronte, da una partizione della medesima costruzione divisa in locali con volta a crociera. Nella stessa area urbana, come documenta la mappa catastale del 1875, insisteva un progetto di trasformazione del sito con la creazione di un avanzamento delle mura urbane nella fronte che guarda verso il fiume Vezzola e la crescita del tessuto edilizio a nord-ovest della chiesa di Sant’Antonio Abate [TE_ 4_1_3; TE_ 4_1_4]. Una serie di aggregazioni e intensificazioni del tessuto edilizio nell’ambito dei confini delimitati dalle strade conferma la politica di espansione e ampliamento dell’antico presidio sanitario; l’attività di recupero di spazi per le strutture dell’Ospedale civile e del Manicomio si estende progressivamente agli immobili limitrofi, sicché, nella sua configurazione finale, tutto il territorio cittadino in cui dal 1931 andrà a identificarsi il solo manicomio si troverà a investire una parte significativa del centro storico, interessando alcune strade e inglobando anche una porta urbana [TE_4_2_2].
I fase: 1881-1901 [TE_ 4_1_5]
architetti/ingegneri: Giambattista Tonini, Giuseppe Pignocchi
alienisti/psichiatri: Berardo Costantini, Cleto Pierannunzi, Raffaele Roscioli
L’idea della localizzazione a Teramo di una struttura sanitaria dedicata al disagio mentale trova una sua realizzazione attraverso il deliberato del Consiglio provinciale nel 1881. Fin dai primi anni dell’istituzione della sezione dedicata agli alienati mentali nell’ambito dell’Ospedale civile di Teramo, l’organismo di dipendenza provinciale che gestirà i servizi sanitari, ossia la Congregazione di Carità, persegue una politica di acquisizione dei suoli in prossimità della Chiesa di Sant’Antonio Abate, onde trasformare l’estesa area urbana di Porta Melatina in un nuovo centro direzionale per la città borghese di inizio Novecento. In realtà, già precedentemente, come dimostra la cartografia catastale, per l’intera area urbana prossima alla fondazione religiosa erano previste operazioni edilizie: l’assetto urbano, infatti, secondo la mappa catastale del 1875, redatta dall’ingegner Giambattista Tonini, prevede il successivo avanzamento del fronte urbano verso il fiume Vezzola e la saturazione dell’area a nord-est della chiesa di Sant’Antonio Abate [TE_ 4_1_3; TE_ 4_1_4]. La quinta di città che guarda verso il corso d’acqua ordina, dunque, la propria cortina edilizia col fagocitare l’aula religiosa e crea, per la città borghese, quel nuovo ingresso al sito affermando un’immagine unitaria dell’intero fronte attraverso la sistemazione di una quinta a due fornici gemelli emisimmetrici, con superiore serliana e affaccio balaustrato recante, all’arcata di nord-est, la targa “Porta Melatina” [TE_4_3_1; TE_4_3_2]. L’immagine ha visto riconosciuto il suo efficace e persuasivo valore nel diventare addirittura ‘frontespizio’ della pubblicazione ufficiale del manicomio, venendo anche utilizzata nelle più ritenute opere a stampa dedicate alla città [TE_4_3_3].
Come confermano le considerazioni esposte nel 1902 dal direttore Francesco Salvini in una relazione a stampa, l’istituzione del manicomio si traduce dunque in occasione perspicua per l’incremento del patrimonio immobiliare di pertinenza dell’Ente assistenziale, sicché tra il 1881 e il 1899 si arriva ad acquistare undici tra immobili e terreni liberi nelle prossimità dell’ingresso urbano dal lato del fiume Vezzola, per poi provvedere a sostenere progetti di modifica dell’area edilizia [TE_ 4_1_4]. Al 1901 risale la proposta di alloggiare di un reggimento militare con inserti edilizi da costruire ex-novo nell’area dell’Ospedale civile, sui nuovi terreni acquisiti prossimi all’aula conventuale e al confine con le mura urbane, prefigurando il riordino della cortina di chiusura del centro storico nel suo fronte di nord-est e dando luogo alla realizzazione di un muro di recinzione avanzato con l’invenzione di un nuovo fornice d’ingresso sul vico primo del Ricovero (oggi vico delle Recluse), col saturare interamente il lacerto edilizio a nord-est della chiesa di Sant’Antonio Abate [TE_4_3_13]. La configurazione degli spazi così definita contempla integrazioni edilizie che nascevano per soddisfare aspettative diverse da quelle legate alle esigenze sanitarie definendo, poi, in qualche modo, non solo gli aspetti fisici del manicomio tramano, ma anche i caratteri distributivi e il modello architettonico del nosocomio medesimo, rivelandosi, inoltre, perfettamente antitetico alle metodiche di cura praticate dagli alienisti che nel tempo si sono avvicendati al suo interno. Il carattere estensivo dell’impegno edilizio con cronologico sviluppo e modifiche dei vani esistenti ha suggerito, insieme all’adattamento alle differenti condizioni orografiche dei siti di pertinenza dell’intero presidio, il regime distributivo di risulta degli ambienti che trova, soprattutto nella pianta del primo piano dalla quota di via Saliceti, la sua sintesi più efficace [TE_4_2_6]. Un’articolazione di corridoi nel fronte di nord-est, con finestre protette da grate che guardano verso l’esterno, suggellano la distanza dei reclusi dal resto del tessuto urbano, suggerendo verso gli affacci interni il carattere di enclave che riveste l’intera struttura. Simile articolazione individua anche un ‘modello progettuale’ che avrà modo di evolversi quando, all’interno del perimetro del presidio sanitario, con il terzo decennio del Novecento, si attrezzerà ex-novo un padiglione in cui il budello distributivo costituirà asse centrale di partizione del lungo rettangolo di fabbricato, assumendo un ruolo di servizio alla degenza, piuttosto che, come alcuni decenni prima, semplice ronda di sorveglianza degli infelici. D’altra parte, il manicomio aprutino ha rappresentato, per altri versi, un formidabile pretesto per supportare idee di trasformazione della città sempre più attente a soddisfare le esigenze delle mutate aspettative sociali in una realtà storica piena di fermenti di evoluzione, considerando principalmente la risorsa immobiliare quale bene primario da far fruttare e relegando le esigenze dell’attrezzatura psichiatrica ad una futura risoluzione attraverso una delocalizzazione esterna al circuito murato.
II fase: 1902-1931 [TE_ 4_1_5]
architetti/ingegneri: non identificati
alienisti/psichiatri: Raffaele Roscioli, Guido Garbini, Marco Levi Bianchini
Le acquisizioni condotte dalla Congregazione di Carità, ente gestore del Manicomio, nell’esercizio finanziario dell’ultimo quarto del XIX secolo prevedono ricadute significative sul tessuto edilizio sostenendo, d’intesa con la Deputazione provinciale, un percorso di riconfigurazione del centro urbano connotato anche da una singolare sistemazione orografica. La progettata destinazione militare [TE_4_2_3] dell’intero comparto cittadino, con l’auspicato progetto di un manicomio esterno al perimetro murato, aiuta la possibilità di acquisire all’uso civico anche il quadrante a nord-est della chiesa di Sant’Antonio Abate connotato da una più acclive condizione di sedime. La scelta operata, sebbene funzionale a necessità militari, con la disposizione di un progetto ex-novo per la struttura psichiatrica, permette, quindi, di utilizzare, in maniera coerente, l’importante settore urbano a nord-ovest delle aree di proprietà della Congregazione di Carità perché, colmando la differenza di quota altimetrica rispetto a quelle delle strade, crea per il presidio ospedaliero l’opportunità di annettere un’ampia area libera priva di accessi diretti dalle arterie viarie e dunque ritenuta di maggiore garanzia per i malati mentali. I due interventi progettuali di novella integrazione sostanzialmente rilevanti, praticati il primo, con il finire del XIX secolo e, il secondo, con il cadere della terza decade del successivo, lasciano intravedere il sottolineato cambiamento di prospettive terapeutiche sottoscritte nello sperimentale laboratorio abruzzese, così come può essere riconosciuto il nosocomio di Teramo. Se dunque la condizione dei luoghi viene efficacemente utilizzata dagli alienisti che si sono avvicendati nella responsabilità del centro aprutino quale strumentale condizione per favorire la ripresa e riabilitazione del disagiato mentale, differente atteggiamento sovrintende negli amministratori della Congregazione di Carità volti a recuperare gli immobili in una prospettiva funzionale alla trasformazione urbanistica di Teramo. La gestione eterogenea, fino al 1931, dell’Ospedale civile e del Manicomio che, negli anni, si accresce, rappresenta, per altri versi, una delle maggiori peculiarità dell’esperienza sanitaria autoctona, sia nella lettura degli immobili edilizi predisposti all’ospitalità dei matti, sia per il valore ‘terapeutico’ che tale promiscuità invera anche nel più lato orizzonte delle relazioni con il contesto urbano. È questo singolare assetto della vicenda storico-urbanistica del nosocomio abruzzese a costituire una chiave di interpretazione del carattere terapeutico che, in questo contesto, riveste anche l’aspetto di adattamento di strutture preesistenti a una funzione sanitaria in cui peculiare aspetto riveste il trattamento dell’infermo mentale quale infermo tout-court e dunque della sua ulteriore ripresa in relazione al suo riscatto sul piano psicologico della ‘normalità’. Sul piano più squisitamente di tecnica di progettazione, la stecca edilizia costruita sul fronte dell’attuale Circonvallazione Ragusa può essere individuata come prodotto concettuale di riferimento dell’attività dell’ingegner Pignocchi, responsabile della redazione del progetto dell’irrealizzato nuovo manicomio [TE_4_2_4] il cui impianto planimetrico accompagna la relazione del Presidente provinciale Pasquale Ventilj del 1901. Stando alle diverse tipologie distributive, il padiglione sulla strada delle Portelle evoca lo schema utilizzato per allogare i tranquilli con una soluzione che occupa due coppie di due dormitori secondo lo sviluppo longitudinale dell’impianto servite da un corridoio sul fronte di nord-est con interruzione centrale per ospitare un raccordo verticale tra i piani tramite scala a doppia rampa. Un corridoio tutto allineato sul lato orientale del fabbricato dunque serve le quattro camerate rettangolari aggregate in coppie e separate dal solo corpo scala centrale [TE_4_2_6]; una serie di affacci a balcone alla romana sul fronte ad occidente con infissi dotati di mezza porta per facilitare l’areazione dei locali schermati, all’altezza dei giacigli per il maggior benessere dei degenti [TE_4_3_16; TE_4_3_17], articola, con essenziali provvidenze, quella che può essere indicata come componente di comfort dello spazio degenza. I solai in putrelle e laterizi offrono una razionale chiusura degli orizzontamenti con profilo a botte secondo la disposizione degli elementi in terracotta tra le coppie di corpi metallici [TE_4_3_15]. La disciplina di adattamento alle specifiche necessità delle strutture sanitarie riguarda anche l’aula religiosa che, divenuta cappella dell’Ospedale civile, vede nella coabitazione con il nosocomio anche l’aggiuntiva trasformazione di un cammino di ronda alla quota del primo piano e la localizzazione di disabili mentali nello spazio della cantoria [TE_4_3_14]. Non manca una ricerca di decoro architettonico, come nello scalone di rappresentanza degli uffici amministrativi, collocato nei fabbricati di sud-est del comparto a est di via Saliceti [TE_4_3_21]. Ispirato a un protocollo maggiormente attinente alle esigenze più puntuali dell’ospedalizzazione degli infelici mentali è il padiglione progettato nell’area centrale tra le superfici a maggior quota acquisite con le operazioni immobiliari condotte dalla Congregazione di Carità. Il corpo costruito a est di vicolo Zoppo, che rappresenta un parallelepipedo concepito come servizio alla struttura aprutina, aderisce a un modello distributivo meno preoccupato di svolgere azione di controllo sui degenti e assolve, in maniera autonoma, la funzione di accoglienza degli infermi, economizzando sulla stessa composizione degli spazi, rinunciando al corridoio laterale e promuovendo la concatenazione degli ambienti attraverso la creazione di una serie di varchi centrali che traguardano da parete a parete i lati brevi del lungo corpo a impianto rettangolare. Questo, in realtà già presente per una porzione a unico piano nella mappa catastale storica [TE_ 4_1_4], trova una estensione verso il perimetro esterno delle mura urbane e vede incrementare la sua capacità volumetrica con l’addizione di altri piani, conclusasi con i lavori del terzo decennio del Novecento [TE_4_2_5; TE_4_2_6; TE_4_2_7]. Una sequenza di sei ambienti di uguali dimensioni e forma, servita da un cannocchiale centrale di varchi che interrompe setti murari portanti, costituisce lo schematico frazionamento dell’impianto rettangolare di base che alla testata di nord-est ospita una scala per i collegamenti verticali tra i diversi livelli. Ulteriore ordinata sequenza di finestre si distribuisce tra gli affacci del volume scatolare che, in larga parte, per la sua giacitura orientata con asse nord-sud, sembra seguire le indicazioni manualistiche circa la migliore esposizione al percorso dei raggi solari [TE_4_3_20]; le porzioni minori delle pareti perimetrali dei singoli cameroni inquadrano, in posizione centrale, un vano luce offrendo, in questo modo, data la lunghezza pronunciata dell’ambiente, una riserva di chiarore anche nelle ore del declino del giorno. L’orditura delle travature metalliche combinate con gli elementi di terracotta disposti tra le ali di alleggerimento delle stesse, scandiscono il sistema costruttivo tra le murature di spina degli spazi, coordinandosi ortogonalmente a queste ultime, e legando le strutture con i martelli murari di chiusura del complessivo volume edilizio [TE_4_3_18].
2.4.3. III fase: 1932-1998 [TE_ 4_1_5]
architetti/ingegneri: non identificati
alienisti/psichiatri: Danilo Cargnello, Ignazio Passanisi, Carlo Romerio, Franco Cesarini, Francesco Saverio Moschetta
La complessa stratificazione dei fabbricati, la loro collocazione all’interno del perimetro murato della città e la condizione di alcuni di questi edifici, immaginati ed effettivamente poi configurati come enclave, lasciano cogliere, dell’intera esperienza del manicomio teramano, l’immagine di luogo dove la prossimità fisica alla città palesa, paradossalmente, anche l’esperienza di una ‘separatezza’ dalla condizione del ‘vissuto urbano’. Per altri versi, le relazioni degli alienisti che si sono avvicendati nella responsabilità dell’Istituto lo descrivono come una sorta di città nella città, rappresentando questa condizione come proficuamente strumentale a praticare protocolli di cura efficaci per l’infermo affetto da disagio mentale, tra i quali l’ergoterapia praticata nei laboratori ricavati negli ambienti del preesistente complesso conventuale [TE_4_3_5]. La stessa numerosità dei degenti e le svariate patologie studiate e affrontate a Teramo fanno di questo presidio un interessante laboratorio di diagnosi, cura e ricerca sulla più articolata definizione del male psichico. La trascrizione in spazi architettonici della sottoscrizione a Teramo di terapie e metodiche di cura non coercitive come il no-restaint da parte dei direttori Raffaele Roscioli e Guido Garbini – o di successivi alienisti – trova riscontri nel minuto allestimento distributivo degli ambienti o anche nell’adattamento di spazi preesistenti [TE_4_3_4] che saggiano nel rapporto con i vuoti interni del complesso l’opportunità di fornire ai degenti condizioni più rasserenanti [TE_4_3_6; TE_4_3_7]. Anche grazie ad attenti ricercatori della disciplina psichiatrica, come Marco Levi Bianchini e Danilo Cargnello, che avevano gestito la struttura abruzzese, il luogo veicola, inoltre, un’immagine di ricerca medica non disgiunta dall’attività sperimentale e di confronto con il medesimo male. Paradossalmente, dunque, la promiscuità con il servizio sanitario civile e la stessa collocazione ‘provvisoria’ nel contesto urbano delle strutture del manicomio, con l’indirizzo adottato dai direttori di aderire alle moderne metodiche della clinoterapia – la cosiddetta “cura del letto” – concorrono a rappresentare, sul piano sperimentale, uno degli strumenti riabilitativi di maggior fortuna o, almeno, ritenuti tali. Sotto il profilo architettonico acquista interesse il rilevare quanta attenzione vi sia stata nella creazione, ad esempio, di soluzioni di affaccio nell’infisso ligneo dei ‘balconi alla romana’, con la creazione della ‘mezza porta’ che ridefinisce, secondo le necessità del momento, il vano luce in uno di minore ampiezza, a mo’ di finestra, offrendo, comunque, la schermatura dal vento, per i degenti che restavano allettati. Il valore paradigmatico del nosocomio aprutino appare, per tanti altri aspetti, assai considerevole anche negli indirizzi di edilizia sanitaria applicata a garantire maggior comfort all’utente. Il profilo esistenziale del vissuto all’interno di una ‘città della pazzia’ inglobata nella città della ordinaria normalità è efficacemente sintetizzato da una frase graffita che si ritrova nei corridoi dello stesso presidio sanitario: “la paura ci difende” [TE_4_3_19], valida non solo per gli ospiti quanto, complementarmente, per i ‘normali’ niente affatto disposti a confrontarsi con gli assai prossimi disagiati mentali.
Dal punto di vista delle vicende edilizie, la necessità di ampliamenti e delocalizzazione di alcune funzioni si documenta anche in sede di progettazione di strutture nuove per accogliere i degenti [TE_4_2_8]. In particolare va segnalato, nel 1974, il tentativo di rispondere al sovraffollamento della struttura tramite la creazione di un nuovo polo di neuropsichiatria in contrada Casalena, alle porte della città, dove accogliere i malati di sesso maschile, riservando lo storico complesso di Porta Melatina alle ricoverate di sesso femminile.
2.4.4. IV fase: 1998-2013 [TE_ 4_1_5]
architetti/ingegneri: Ufficio Tecnico ASL
L’ospedale psichiatrico condensa, nella sua esperienza storica di ‘separatezza’ dalla città reale, anche il suo essere oggetto, per i teramani, di un luogo teorico da dover ‘riconquistare ai sani’ attraverso progetti di rifunzionalizzazione che si intensificano a far data soprattutto dagli ultimi anni Novanta. A seguito della chiusura del Servizio sanitario per il disagio mentale (1998), l’area urbana, interessata dal piano regolatore della città e soggetta a un piano particolareggiato, diventa infatti oggetto di riflessione e di dibattito cittadino, sia per le aspettative di apertura al pubblico dell’ex nosocomio, sia per impiantare nell’esteso ‘contenitore edilizio’ una serie di servizi e di attrezzature utili alla cittadinanza. La stessa Asl, proprietaria della struttura, provvede alla redazione di un progetto che, sulla base di una relazione dell’Agenzia del Territorio (2009), dividendo il complesso in 3 isolati, immagina di rifunzionalizzare le strutture di sua pertinenza. Il tema del manicomio e della sua utilizzazione diventa motivo di interesse costante nell’opinione pubblica, anche con l’allestimento di mostre fotografiche, pubblicazione di volumi e saggi diversi, nonché creazione di siti internet. Si susseguono numerosi progetti, miranti a ospitare servizi pubblici, università, dormitori per studenti, edilizia privata, musei e istituti di studi sul disagio mentale, a testimonianza di un dibattito, non avulso da polemiche giornalistiche, tuttora in corso.
impianto
sistema ramificato a blocchi interconnessi
corpi edilizi
La tipologia degli edifici costruiti ad hoc per le esigenze del nosocomio è quella del padiglione-corridoio multipiano. La distribuzione verticale si affida a una scala collocata, in alcuni casi, a metà e, in altri, in testata del corpo di fabbrica. Le differenze di quota imposte dall’orografia consentono, in entrambi i casi, uno sviluppo in altezza di tre piani fuori terra.
strutture
strutture in elevazione: murature in pietra, mista e in laterizi
orizzontamenti: volte a botte, a crociera e a padiglione, solai in putrelle e laterizi
coperture: tetto a falde con struttura a capriata lignea e manto in laterizio
cattivo Il documento finale del Piano di Protezione Civile ed Emergenza Comunale (gennaio 2009) descrive l’ex nosocomio psichiatrico come individuato da: “struttura degradata, presenza di lesioni, altezza media maggiore di 3 piani o 10 mt, facenti parte di aggregati irregolari in altezza e planimetria”; con edifici in muratura di “tipo A di qualunque tipologia con malte povere (non cementizie)”
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Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Atti amministrativi (1882-1915)
ASL di Teramo, Archivio corrente
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