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II fase

Anno inizio: 
1831 to 1876

Dal 1831, con la direzione di Giuseppe Simoneschi, mentre i lavori di adeguamento procedono con molta lentezza, si avvia il maggiore intervento edilizio di ampliamento e trasformazione delle Reali Case de’ Matti, il cui progetto è affidato nel 1843 all’architetto Nicola Stassano, che è guidato dalle indicazioni scientifiche del medico alienista Biagio Miraglia. L’obiettivo è conservare la chiesa medievale e ampliare il primitivo impianto conventuale con “semplici linee”, vale a dire secondo addizioni rettangolari impostate su una maglia regolare, per ospitare oltre 700 “individui”. In particolare, rispettando l’originario orientamento della facciata principale verso est, si prevede di affiancare al chiostro principale undici ampi cortili interni rettangolari porticati [CE_4_2_2; CE_4_2_3].

La distribuzione e l’aggregazione degli spazi si basa sulla separazione degli ammalati in sezioni distinte secondo il sesso e le differenti patologie mentali e sulla stretta interrelazione tra locali per le attività terapeutiche e aree esterne. Sono, inoltre, introdotte sezioni pedagogiche, una scuola religiosa “primaria, scientifica, artistica” e “stabilimenti” per le attività industriali, artigianali e per il lavoro agricolo, mentre ai giardini è assegnata notevole importanza nel processo di recupero degli alienati. Senza demolire le preesistenti fabbriche, si stabilisce la continuità con le strutture del convento, ricorrendo a un sistema di addizione modulare dei nuovi corpi, in modo da includere il primitivo impianto nello sviluppo regolare e ortogonale della planimetria dalla singolare forma a “T”, scandita da una serrata sequenza di ambienti facilmente adeguabili a eventuali mutamenti delle destinazioni d’uso, dei programmi terapeutici o delle disposizioni legislative. Si apportano importanti innovazioni agli strumenti di contenzione (letti, bagni) ma, su espressa indicazione di Simoneschi, si demolisce il teatro, spazio caro al processo riabilitativo perseguito da Linguiti e, al suo posto, è costruita una vasta sala per accogliere gli infermi.

I lavori iniziano nel 1845, procedendo, tuttavia, con alterne vicende, soprattutto dopo il 1848, anno in cui Miraglia è allontanato per aver aderito ai moti liberali. Tuttavia, è da ritenere che fosse ormai completa gran parte del lato orientale e, in particolare, quel corpo di fabbrica, annesso al convento in corrispondenza della facciata e chiuso intorno ai due cortili rettangolari minori, che avrebbe dovuto costituire il prospetto anteriore del nuovo edificio. Il resto del progetto, però, non verrà mai portato a termine.

Durante la direzione del medico Federico Cleopazzo, sulla scorta di tre rescritti reali del 20 novembre 1853, 11 giugno 1856 e 15 luglio 1857, si spende la “vistosa somma” di 97.984,87 ducati “per opere eseguite in economia” e, nel 1858, il governo autorizza di erogarne altri 33.603,80. Durante questo decennio, infatti, dopo aver ristrutturato gli ambienti insalubri, si provvede a garantire la sicurezza delle sale di degenza, dove si eliminano le sporgenze dei pilastri dalle pareti, lungo le quali erano affiancati i letti, si ridistribuiscono le postazioni per la sorveglianza, si aumentano ulteriormente i servizi igienici, si rivestono le pareti, si completano le rifiniture degli interni e della facciata e, al posto delle grate in ferro, si realizzano telai in legno, perché, specifica l’architetto, la loro forma “non attristi affatto il carattere del fabbricato”. Nel 1858, si acquista un moggio di proprietà di Raffaele Di Martino, limitrofo all’area settentrionale dell’ampliamento.

Nel 1860, a seguito di evidenti problemi strutturali, si avviano urgenti opere di consolidamento nell’“antico locale della Maddalena” e, in particolare, nel grande dormitorio dislocato al primo piano nell’ala orientale del primo cortile.

Nel 1860, con il ritorno di Biagio Miraglia in qualità di direttore, si intensificano i lavori, ma l’alienista propone una revisione di quanto aveva indicato nel 1843, adattando al complesso della Maddalena il progetto-modello di manicomio italiano, anche questo redatto con la collaborazione di Stassano per la parte tecnica. Distribuiti i malati in otto distinti “quartieri”, uno per ciascuna delle classi – o “famiglie”, come le definisce il medico – in cui aveva suddiviso le manifestazioni della follia, separa i malati per sesso in due stabilimenti tra loro confinanti per mezzo di rispettivi giardini e comunicanti con viali interni [CE_4_2_4]. Alla sezione muliebre è assegnato un nuovo e più ampio edificio, tale da ospitare almeno 300 alienate, tra cui quelle ricoverate presso la sede succursale del monastero dei Cappuccini al Monte, oramai inadatto, insalubre e insufficiente. A redigere la nuova soluzione è chiamato ancora una volta Nicola Stassano, che nel 1862 disegna una pianta rettangolare con due vasti cortili interni e celle disposte lungo i lati. La facciata, rivolta a Mezzogiorno, è delineata secondo una scansione architettonica le cui partiture si legano a quelle della Casa Madre per la continuità formale del registro decorativo. Nel 1866, la proposta, insieme a quella per il recupero strutturale della Casa ausiliare di S. Agostino, ottiene l’approvazione sia della Commissione Amministrativa, sia di quella Medica, ma l’edificio per sole donne non verrà mai realizzato.

Intanto, alla Maddalena, Stassano riprende la sua idea iniziale di costruire il corpo di fabbrica ortogonalmente rispetto all’impianto principale e di articolarlo intorno a due ampi giardini rettangolari, tuttavia, lo modifica in un compatto blocco edilizio, quadripartito da corti interne per altrettanti “quartieri”, dove alloggiare quattro diverse “famiglie di matti”. Per garantire il soleggiamento e la corretta aerazione di tutti gli ambienti, organizza la nuova struttura su due livelli, ma riduce il numero di servizi sanitari, al punto da lasciarne solo uno per ciascun piano e, per maggiore igiene, preferisce il sistema dei wc mobili. Inoltre, ripristina l’antico teatro – voluto da Linguiti e soppresso durante la direzione di Simoneschi – che viene aperto al pubblico nel 1864. Le opere preventivate, però, subiscono presto un considerevole rallentamento, quasi certamente per la scarsezza delle risorse economiche, al punto che, nel 1869, anno delle dimissioni di Miraglia, la struttura versa in un profondo stato di abbandono.

Di fatto, prima della nomina del nuovo direttore, che interviene solo due anni dopo, si ingrandiscono alcuni ambienti al secondo livello, sopra il salone un tempo adibito a refettorio, a sua volta consolidato nel 1871 e trasformato in un sala di trattenimento dei folli. Inoltre, si eliminano le celle situate nel corridoio vicino al coretto della chiesa, ormai “luride”, se ne costruiscono altre più areate e si realizzano comode e ampie sale nell’estensione occidentale, da destinare alle attività ludiche e a quelle lavorative.

Tra il 1871 e il 1876, durante la breve gestione di Federico Federi, il travagliato iter dei lavori vive una fase più intensa: maggiore impegno è riservato a migliorare le condizioni igieniche dell’edificio principale e a terminare il sistema idrico e fognario nei nuovi corpi di fabbrica.

Accanto alle nuove opere eseguite, tra cui il refettorio grande e le cucine, si programma la costruzione di otto “comode abitazioni” per i degenti a pensione e un più grande dormitorio, meglio areato. Poichè da una relazione presentata dalla Commissione amministrativa alla Deputazione provinciale si evince che la struttura aversana risulta ancora carente di “quartieri”, giardini, adeguate sale da lavoro e magazzini, è da ritenere che si apportino diverse modifiche alla soluzione di Stassano, di cui sono ormai pronti i corpi di fabbrica di tre sezioni. Nel 1872, così, si redigono due progetti “generali” di ampliamento. Agli inizi degli anni Settanta, si delega l’architetto Giacomo Gentile a continuare il restauro e l’ampliamento dell’antica infermeria, iniziati l’anno prima.

Nonostante l’impegno profuso da Miraglia, da Fideri e dai tecnici impegnati nei lavori della Casa Madre, l’idea iniziale di Stassano subisce notevoli riduzioni. Scarse risorse finanziarie e, al tempo stesso, sprechi economici, costante afflusso di ricoveri, urgenza di continui interventi di consolidamento per la vetustà delle strutture preesistenti, conducono al completamento solo del corpo posteriore, di quello a delimitazione dell’ampio cortile interno e del prolungamento della facciata principale con la sua definizione formale dall’austero linguaggio neoclassico. Questa, sovrastata da un basso timpano sormontato da sculture di mediocre qualità artistica, è scandita da un partito di bucature disposte su due livelli e da un basamento in bugnato, dal marcato valore chiaroscurale, che, con un disegno unitario ribadito sui restanti lati, avrebbe dovuto uniformare il precedente edificio claustrale e le nuove strutture.

Delineata sin dal progetto del 1843, la monumentalità dei prospetti, inoltre, avrebbe dovuto contribuire ad allontanare tanto il ricordo della preesistenza conventuale, quanto l’idea del manicomio, anticipando di quasi dieci anni quanto, prima, indicherà Parchappe nel 1853 e, poi, sperimenterà Gaetano Castelli nel 1877 con la proposta di un “Manicomio per Cinquecento infermi”.

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