Nominata dall’Amministrazione provinciale di Lecce un’apposita commissione per esaminare se l’ex convento degli Alcantarini fosse adatto a ospitare la sede del manicomio – come testimoniano i documenti d’archivio - e valutato positivamente “il luogo tutto, per l’aria, per la opportuna e giusta distanza dal centro della città” e per essere circondato da ampi spazi a verde di proprietà della stessa Provincia, il Consiglio provinciale incarica l’ingegnere Capo dell’Ufficio tecnico, Luigi Libertini, di redigere il “progetto di arte”. Questi si avvale della consulenza specialistica dell’alienista Giovanni Libertini, il quale a sua volta si reca a Napoli e a Firenze “per richiedere schiarimenti ai suoi illustri maestri Prof. Bianchi e Tanzi che sempre gentilmente gliene hanno forniti”.
Il 18 novembre 1897, Libertini presenta una dettagliata relazione del progetto “che si ha l’onore di presentare”, redatto dopo una “visita minuta” in diversi manicomi tra cui quello di San Salvi a Firenze, “una dell’ultime costruzioni del genere”. Dal pagamento del 1899 si evince la previsione di spesa di 140 mila lire per i lavori di ristrutturazione del manicomio, di cui £ 9.600 a Libertini (3.000 per il rilievo del complesso, 6.000 per il progetto e il resto per le spese di viaggio).
Per quanto riguarda la tipologia, Libertini, pur riportando il parere espresso dalla commissione esaminatrice dei progetti di concorso per il Manicomio provinciale di Napoli del 1890, che era favorevole al tipo di impianto a comparti disseminati, mostra di preferire l’edificio del tipo misto e più o meno concentrico, come supporto al medico alienista, citando in particolare gli esempi dei complessi di Waldau a Berna e di Königsfelden a Brugg. Pertanto, nel progetto del manicomio di Lecce, oltre a trasformare “il tipo chiuso quadrangolare del vecchio convento e ridurlo a scaglioni come consigliano tutti i trattati d’igiene moderni”, viene affiancato un padiglione per le donne distaccato e di nuovo impianto, a due piani, cui ne seguiranno altri [LE_4_2_3; LE_4_3_1; LE_4_3_2]. La soluzione è avallata da Bianchi il quale, inoltre, dando merito alle idee del tecnico pugliese, osserva che anche “se il progetto Libertini non risponde all’alta idealità di un manicomio tipo”, in quanto adattato per ragioni anche economiche al vecchio fabbricato, può tuttavia rispondere a tutte le esigenze della cura, per la giusta distribuzione degli ambienti, per la separazione razionale degli agitati dai tranquilli e per le ampie e numerose sale da trattenimento e da lavoro.
Anche il nuovo direttore Giovanni Andriani difende l’opportunità della scelta dell’impianto misto, rispetto a quello a reparti sparsi, con tanti padiglioni per quante erano le categorie di ammalati, caldeggiato, a suo dire, da chi aveva “vedute grandiose”, come negli episodi di Reggio Emilia, Firenze, Roma (Sant’Onofrio) e Napoli; sistema adottabile per i grandi manicomi, a partire dai 600 folli, e comunque non scevro da gravi inconvenienti, ma “ridicolo” per quello leccese, comportando oltretutto la moltiplicazione dei medici e del personale di assistenza. Né era d’altro canto raccomandabile il sistema a grandi fabbricati unici, come nei citati episodi di Aversa, del San Clemente a Venezia o della Vecchia Lungara di Roma, a causa della vicinanza dei due sessi o degli agitati con i tranquilli.
Il 6 giugno 1900, Andriani firma la Relazione sui lavori di completamento del Manicomio Provinciale di Lecce redatta per stabilire la destinazione dei diversi locali all’uso degli ammalati e di particolare utilità anche per ricostruire gli ambienti del manicomio originario, capace di 168 letti. Solo il pianterreno dell’antico convento, comprendente anche un bel porticato “che potrebbe servire di luogo di passeggio in qualche giorno piovoso d’inverno”, si rivela confacente: qui sono sistemati, oltre all’alloggio del portiere, il parlatorio e la residenza del soprintendente al manicomio. Il piano superiore andava invece ricostruito interamente, in quanto “coordinato agli usi e costumi dei Pasqualini”, cioè frazionato in piccole celle [LE_4_2_4; LE_4_2_5]. Andriani suggerisce anche di adattare l’antico refettorio dei monaci, a oriente, a mensa per i tranquilli e richiama l’attenzione sulla costruzione dei locali per i servizi generali, dispensa, cucina, guardaroba, infermeria e dei bagni, dotati di docce e sala idroterapica, accanto alle stanze per i luridi e i paralitici.
Alle spalle del refettorio trovano posto le stanze – di m. 3 x 4 secondo la normativa – per gli agitati e gli epilettici, per le quali Libertini precisa che, sebbene i pareri degli psichiatri siano ancora discordi sul modo di tenere gli agitati, cioè se in comune (Tanzi) oppure separati in celle (Bianchi), seguendo il parere del secondo ha adottato il sistema delle celle per gli uomini e il sistema misto per le donne. Il reparto degli agitati si completa con una grande sala, refettorio o ricreatorio, e con un cortile, separato dai giardini mediante mura, per intrattenere all’occorrenza gli agitati all’aperto. Nei pressi dell’infermeria sono previsti due grandi locali da adibirsi a sale di lavoro per ammalati tranquilli. Nel piano superiore, oltre ai locali per i dormitori, la direzione e la segreteria, sono presenti quattro reparti per ammalati tranquilli, con 71 letti e quattro celle e un reparto per semi agitati con cinque stanze, ciascuna dotata di quattro letti.
La dettagliata relazione di Andriani si correda infine anche di indicazioni sul tipo di pavimento, di facile pulizia e manutenzione, tale da scartare mattoni e mattonelle, optando piuttosto per il cemento battuto con schegge di colore, sull’esempio delle case di cura private. Secondo l’uso antico, le pareti sono imbiancate a calce, evitando ogni tipo di spigolo, mentre le finestre vengono dotate di vetri particolarmente spessi e munite di cancellate fisse in ferro “di un modello che sia solido, svelto e grato alla vista”, secondo “il campione” approvato da Bianchi. L’avviso d’asta per l’appalto di tutte le imposte in legno interne ed esterne del manicomio, al quale partecipano diverse ditte italiane, tra cui la Ziliani da Padova, viene pubblicato il 21 febbraio 1901.
Il padiglione delle donne, sempre a due piani, è completamente separato dal corpo principale ma non lontano dai servizi generali. Al pianterreno, oltre al parlatorio, è ubicato il locale delle agitate, con 10 letti e con celle di isolamento con cortiletto separato. Il nuovo padiglione femminile è rifinito esternamente in pietra leccese con filari a vista, la cui configurazione, essenziale e priva di connotazioni storicistiche, verrà replicata anche negli altri sette padiglioni, realizzati nel tempo [LE_4_3_3].
Nel maggio del 1901, Luigi Libertini provvede a inoltrare alla Deputazione provinciale la richiesta per provvedere all’allaccio per la fornitura di illuminazione elettrica, nonché all’impianto di cucine e scaldabagni a gas. Anche in questo caso alla gara d’appalto partecipano società provenienti da diverse parti d’Italia: tra le altre, offrono i loro preventivi la ditta Giuseppe Cantelmo, costruttrice di cucine economiche di ben cinque metri di lunghezza, anche sul modello inglese e la ditta Edoardo Lehmann di Milano [LE_4_2_6], specializzata in lavanderie a vapore.
Andriani pone infine particolare attenzione al verde, raccomandando di piantare uno o più filari di acacie o di altre piante ombrifere. Un viale principale, ampio e configurato a pergolato, è previsto dai servizi generali al muro di cinta orientale, parallelo ed equidistante dal comparto degli uomini e da quello delle donne [LE_4_3_3].
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