Il 29 novembre 1858, l’architetto toscano Giuseppe Cappellini, incaricato dalla Deputazione provinciale di sviluppare il progetto di ampliamento e sistemazione del San Benedetto, consegna i disegni, frutto della stretta collaborazione con Girolami [PU_4_2_5; PU_4_2_6; PU_4_2_7; PU_4_2_8]. La direzione dei lavori è affidata all’ingegnere Alessandro Scalcucci, assistito dal capomastro Alessandro Bacchiani che, dopo la morte, sopraggiunta nel 1860, sarà sostituito dai suoi due figli, Domenico e Giovanni. Il nuovo intervento, ispirato dal direttore che imporrà una netta divisione per sesso e per malattia, sfrutta le strutture preesistenti. Presentato all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, il progetto prevede:
il raddoppio, col prolungamento verso est fino a via Mammolabella, del corpo di fabbrica principale a quattro piani, l’apertura dell’ingresso principale al centro della nuova facciata e la saturazione dell’area precedentemente occupata dal vicolo del Sesino e dalle casupole dislocate tra il vicolo stesso e via Mammolabella [PU_4_3_1; PU_4_3_5];
il prolungamento verso sud, fino alla nuova ala eretta in precedenza su progetto di Enrico Joni, del corpo di fabbrica che si affaccia su via Mammolabella [PU_4_3_4; PU_4_3_6];
l’aggiunta di un piano alle vecchie ali di fronte Porta Rimini e lungo via Mammolabella, in difformità rispetto al progetto Cappellini [PU_4_3_3; PU_4_3_8];
l’inserimento di un corpo di fabbrica trasversale, creando due cortili all’interno;
l’erezione, all’estremità est del Parchetto [PU_4_3_2], di un nuovo stabile i cui locali, dopo una iniziale destinazione a lavanderia, stalle e sala anatomica, sarà impiegato per accogliere i folli poveri [PU_4_3_7].
Nel 1863, con i lavori ancora in corso, l’architetto Cappellini, su richiesta della Deputazione, fornisce un nuovo disegno per la lavanderia, collocata all’estremità meridionale del giardino, sul lato opposto all’ingresso principale. Nel 1871, i lavori iniziati dodici anni prima possono dirsi conclusi. L’assetto e le caratteristiche assunte dall’Istituto a questa data rimarranno pressoché inalterati anche negli anni successivi, quando si eseguiranno lavori di ristrutturazione di modesta entità. L’insufficienza delle opere e dei lavori intrapresi, i vizi insiti nella fabbrica, la localizzazione del complesso nello spazio infra-moenia e a ridosso delle mura con la conseguente impossibilità di ulteriori ampliamenti, il numero di degenti salito a duecentocinquanta unità, fanno sì che nel 1873, dopo soli due anni dalla conclusione dei lavori iniziati nel 1859, il manicomio pesarese versi nuovamente in condizioni critiche.
Se ne era già reso conto Cesare Lombroso – alla direzione del San Benedetto dall’inverno all’autunno del 1872 – che, dopo soli nove mesi, non esiterà a lasciare la direzione del manicomio per rientrare a Pavia dove, dal 1862, aveva svolto attività di docente e di primario di un reparto di alienati. Le ragioni di questa rinuncia sono da ascrivere: a) alle condizioni materiali dell’ospizio; b) alla penuria di fondi per la gestione e il miglioramento dell’istituto; 3) all’assenza di una facoltà di medicina, e quindi di allievi da inquadrare in un profilo rigorosamente scientifico. Sul quarto numero del Diario dell’ospizio di San Benedetto in Pesaro, il bollettino da lui stesso fondato, segnala la necessità di concepire locali di servizio ispirati a nuovi modelli, di abolire le celle dei “furiosi”, giudicate “indegne di una casa di pena”, di trovare uno spazio adeguato, al di fuori dell’istituto, dove fare alloggiare e fare lavorare un centinaio di ricoverati inoperosi che non possono più uscire dal manicomio.
Le condizioni del San Benedetto nel 1873, sono descritte dal medico direttore del manicomio di Ferrara, Clodomiro Bonfigli (Bonfigli 1882, p. 4): celle d’isolamento per i “malati inquieti” prive di aria e di luce; “infermerie anguste e mal ventilate”; impiego di pagliericci putridi, ricettacolo “di insetti schifosi”, al posto di materassi; mancanza d’acqua corrente; locali dei bagni privi di apparecchi idroterapici e di tinozze di latta e rame; latrine pessime; scarsi mezzi di illuminazione artificiale nei dormitori; laboratori insufficienti; guardaroba “miserrimi”. A queste denunce si aggiungono quelle di Antonio Michetti, direttore dell’istituto dal 1873 al 1905, alla Deputazione provinciale: limitata estensione e ignobili condizioni del “parchetto”, ridotto a un lurido letamaio; assenza di locali e relativa strumentazione per l’idroterapia, “ritenuta fondamentale per la cura della pazzia”; impossibilità di separare i folli in base al tipo di malattia mentale; insufficiente numero di letti a branda; pessima esecuzione delle latrine, fonti di esalazioni nauseabonde soprattutto nei mesi estivi; e, non ultimo, la “sgradita presenza” di delinquenti, per i quali sarebbe stato opportuno un manicomio criminale. L’insufficiente estensione del parchetto, destinato allo svago dei folli, induce Michetti a richiedere un’area adeguata alla costituzione di una “colonia agricola”, analogamente a quanto avviene in altri manicomi provinciali.
Nel 1874 s’intraprendono, anche se in misura parziale, una serie di lavori di ristrutturazione che, procedendo molto a rilento, non faranno registrare sensibili miglioramenti. Tre anni dopo, a lavori solo parzialmente eseguiti, restano critiche le condizioni di bagni, latrine, dormitori e camere destinate ai “furiosi”, mancano le dotazioni di base (materassi, brande) e gli impianti (elettrico e soprattutto idrico-sanitario che, al termine dei lavori, non sarà stato ancora realizzato tanto da impedire, vista l’assenza di condutture di adduzione e scarico dell’acqua, l’idroterapia).
I lavori richiesti da Michetti e avviati nel 1874, sono finalmente portati a termine dieci anni dopo. Nel 1884 il San Benedetto può finalmente disporre di un impianto di acqua potabile, di un serbatoio di riserva d’acqua, di gabinetti idroterapici, di un guardaroba sensibilmente ampliato e di reti metalliche in sostituzione dei pagliericci. Le celle di isolamento sono completamente restaurate. Lo stato delle latrine resta tuttavia pessimo, i dormitori mancano di prese d’aria e l’impianto di riscaldamento è assente.
A quest’epoca la popolazione del San Benedetto supera le trecento unità. La sezione maschile dispone di una infermeria e di specifici reparti destinati ai furiosi, agli epilettici, ai sudici e ai folli inabili al lavoro.
Il 1885 fa registrare un leggero miglioramento delle condizioni all’interno del San Benedetto, soprattutto per effetto della diminuzione degli internati, dirottati nel nuovo manicomio di Imola. I lavori di ristrutturazione continuano, in particolare modo nella sezione femminile e nei locali delle furiose, dove si sistemano le latrine e i refettori.
Il decennio 1890-1900 costituisce una nuova fase critica: la popolazione del San Benedetto passa dalle trecentocinquanta unità del 1890 alle quattrocentoquarantuno unità del 1899. Michetti sollecita nuovi lavori: rifacimento pavimenti, nuove celle d’isolamento da destinare ai “furiosi”, camere per i “contumaciali” (affetti cioè da malattie contagiose e da mettere, quindi, in isolamento), un reparto di convalescenza.
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