Un locale sopra la “Porta de’ Cappuccini” o Porta Cappuccina (fino al 1828)
Assenti
recupero con ampliamenti
L’apertura di un asilo per i mentecatti da realizzarsi a spese della Provincia si deve all’iniziativa di monsignor Benedetto “de’ Baroni Cappelletti” (1764-1834), a capo della delegazione apostolica di Urbino e Pesaro dal 1823. Il 15 gennaio 1824, con la mediazione del potente cardinale Giuseppe Albani (1750-1834), prefetto della Congregazione dei Vescovi, Cappelletti fa recapitare alla Congregazione del Buon Governo il progetto di uno “Stabilimento Pio a carico della Provincia per rinchiudere i Mentecatti” da erigersi dentro la città. Il sito prescelto è nei pressi di Porta Rimini, “in ottima giacitura tanto riguardo alla aria, quanto riguardo alla sua esposizione fra giardini, e vedute di campagna” [PU_4_1_3]. È occupato dal complesso conventuale in rovina del soppresso ordine dei Carmelitani e da una schiera di quattordici misere case di proprietà di un certo Gargantini. Il 3 aprile 1824, un dispaccio del cardinale prefetto del Buon Governo autorizza il progetto e il relativo piano finanziario, consentendo così a Cappelletti, grazie alla facoltà a lui concessa di imporre una tassa di un baiocco e mezzo a tutti i residenti nella provincia, di acquistare, tra aprile e settembre, sia il complesso del Carmine di proprietà dei fratelli Guidomei, per 2.700 scudi, sia le quattordici casupole di proprietà Gargantini – di cui dieci poste a est (dalla parte del cortile) e quattro a nord del complesso conventuale – per 1.300 scudi. Il programma funzionale alla base del progetto di ristrutturazione e ampliamento dell’ex convento è molto semplificato, limitandosi a indicare cinquanta celle per altrettanti ricoverati –numero calcolato sulla base delle risultanze di un censimento, effettuato nel 1822, dei mentecatti reclusi in locali ricavati all’interno di edifici di tutt’altra destinazione o, in certi casi, nelle pubbliche carceri, nei soli comuni di Urbino, Pesaro, Fano, Senigallia e Gubbio – oltre a “una discreta abitazione pe’ custodi e qualche altra camera per l’Amministrazione”.
I fase: 1824-1834 [PU_4_1_8]
architetti/ingegneri: Angelo Pistocchi
alienisti/psichiatri: assenti
I primi lavori di adeguamento delle antiche strutture, che dovrebbero consentire l’accoglienza di “60 individui […] affetti di pazzia”, sono affidati alla direzione dell’ingegnere camerale Angelo Pistocchi, funzionario del governo pontificio. La somma inizialmente stanziata si rivela però appena sufficiente a pagare le sole opere murarie. Il convento, nel suo stato di fatto, presenta dieci camere al piano terra e quindici al piano superiore oltre ad alcune sale d’uso collettivo. L’impossibilità di “rinchiudere” sessanta pazzi in venticinque camere rende indispensabile la formazione di nuove stanze di degenza. Si decide quindi di erigere un corpo di fabbrica all’interno del cortile meridionale, lungo il lato sud delimitato dalla Strada del Parchetto. Dotata di portico sul fronte interno, in diretta continuità con i due bracci già esistenti sui lati ovest e nord del cortile stesso, la nuova ala dispone al piano superiore di tredici camere divise in due gruppi da un corridoio centrale: il primo è formato da otto piccole stanze di degenza che affacciano sul cortile mentre il secondo si compone di cinque camere di maggiori dimensioni rivolte all’esterno, sulla strada del Parchetto. Con questo primo intervento di ristrutturazione e ampliamento non ci si limita alla sola costruzione del nuovo braccio meridionale, che consente di portare a quaranta il numero complessivo delle camere, ma si procede con l’apertura di un atrio, di cui il complesso era privo, con la rimozione e risistemazione dei vani esterni di porte e finestre secondo “una conveniente ma semplice simetria, ed in modo che le une siano dirimpetto alle altre per la tanto utile ventilazione”. L’insufficienza dei fondi a disposizione per tali lavori non consente, tuttavia, di porre in esecuzione tutte quelle altre opere e lavori ritenuti indispensabili per un corretto esercizio del “pio stabilimento”. Nel giugno del 1825, quando la Delegazione Apostolica di Pesaro e Urbino si rivolge direttamente a papa Leone XII per ottenere l’autorizzazione a impegnare poco più di 3341 scudi del fondo provinciale per proseguire i lavori, l’ospizio è “ridotto, e restaurato in gran parte”. Grazie alle sovvenzioni concesse dal papa, nel 1826 si procede all’acquisto di altre casupole, così da allestire i locali necessari alla cura dei sessanta malati censiti a questa data. Il 14 marzo 1827 Benedetto Cappelletti invia una lettera a papa Leone XII, manifestandogli il desiderio di avviare lo stabilimento dei pazzi, non ancora terminato ma prossimo all’inaugurazione, aprendo intanto la sola chiesa nel giorno di S. Benedetto (21 marzo) e chiedendo che nella stessa chiesa sia concessa l’indulgenza plenaria ai fedeli in tutte le festività. Con oltre due anni di ritardo rispetto alla data prevista, il giorno di capodanno del 1829 si inaugura il nuovo ospizio. Il direttore amministrativo è Felice Pesaresi.
A cinque mesi dall’apertura, il San Benedetto ospita trentasei folli, di cui venti uomini e sedici donne. La sezione femminile è quella che lamenta le maggiori carenze, dal momento che le internate di notte sono riunite in un’unica stanza e di giorno distribuite senza un criterio in stanze diverse. La stessa sezione è per giunta priva di spazi per il passeggio e per l’intrattenimento diurno, nonché di un refettorio e di una latrina.
Come scriverà il Gonfaloniere di Pesaro al Governatore di Roma, il San Benedetto a quest’epoca funziona né più né meno che come un “semplice reclusorio” (Giovannini, p. 33 n. 4).
II fase: 1834-1847 [PU_4_1_8]
architetti/ingegneri: Pompeo Mancini
alienisti/psichiatri: Domenico Meli
Domenico Meli, laureato in chirurgia a Roma e in medicina a Pavia, ex-ufficiale medico dell’esercito napoleonico, con cui partecipa alla campagna di Russia, è il primo medico direttore del San Benedetto. Pur impedendo ai custodi l’utilizzo di maniere forti nei riguardi dei malati, non esclude l’uso di strumenti repressivi, a patto che siano utilizzati da “chi fa studio delle aberrazioni dello spirito”.
Meli chiede alla Deputazione Provinciale che siano intrapresi provvedimenti urgenti per aumentare il numero di spazi liberi per il passeggio (i due cortili sono insufficienti) e ampliare la superficie utile destinata ai folli così da dividerli in base al tipo di disagio mentale.
La Deputazione, in linea con quanto si sta facendo negli altri stati italiani ed europei, accoglie le richiesta del nuovo direttore in merito al finanziamento dei lavori di ristrutturazione e ampliamento del San Benedetto. Il 25 settembre 1834, “essendo stata riconosciuta di assoluta e positiva necessità un’ampliazione di locale”, il marchese Antaldo Antaldi, consigliere governativo, e il capo mastro muratore pesarese Alessandro Bacchiani, sottoscrivono il contratto di appalto relativo alla “costruzione di tutte quelle opere da muratore, scalpellino, falegname da eseguirsi nel surriferito ospizio di San Benedetto, per suo ampliamento di locale e da darsi perfettamente compite nel termine di sei mesi dal giorno della consegna del lavoro», per una spesa complessiva di 2.207 scudi, 74 baiocchi e 6 decimi. La scrittura privata è accompagnata da pianta e “scandaglio stimativo per l’ampliamento del locale destinato alle mentecatte, e di alcune sale terrene”. La responsabilità del progetto architettonico è affidata all’ingegner Pompeo Mancini in stretta collaborazione con il medico-direttore [PU_4_1_4; PU_4_2_1; PU_4_2_2; PU_4_2_3]. La perizia di stima dei lavori di costruzione del “nuovo braccio di fabbrica che si destina alle mentecatte” porta la data del 22 agosto 1834 ed è identificata, sia nel frontespizio sia nella scrittura privata, con la lettera “A”. Firmata dal sostituto del sotto ispettore ingegnere direttore, l’ingegnere della delegazione provinciale E. Salmi [sic.], essa fa riferimento “all’unito disegno” marcato invece con la lettera “B” purtroppo andato perduto. Per risalire alle caratteristiche del progetto di ampliamento ci si deve quindi affidare alla descrizione dell’ingegnere provinciale contenuta nella suddetta perizia. Il nuovo corpo di fabbrica si articola su due piani. Al piano terra trovano posto: la nuova chiesa; il locale destinato a magazzino, lo stenditoio e, al livello sotterraneo, il luogo di raccolta della spazzatura; le latrine “a comodo di tutto lo stabilimento”; una cameretta per le dementi; un ingresso a loggia dal lato del belvedere; la serie di camere per le dementi. Il secondo piano, raggiungibile salendo due rampe di scale, si compone invece di ottantasette camere per le degenti e di due “camerioni” ad uso comune.
III fase: 1847-1858 [PU_4_1_8]
architetti/ingegneri: Enrico Ionj, Alesssandro Scalcucci
alienisti/psichiatri: Giuseppe Girolami
A fronte della rilevante quantità di nuovi internamenti si programmano ulteriori lavori di ristrutturazione e ampliamento. Si procede dapprima con l’acquisto e poi con la demolizione di alcune casupole dislocate lungo la Strada del Parchetto, che viene soppressa, e il vicolo del Sesino. Con ciò il perimetro del lotto assume la forma che conserverà fino ai giorni nostri. Le vie suddette, diventate nel 1849 di proprietà della Deputazione provinciale, sono inglobate nell’area del complesso manicomiale. Il progetto è redatto dall’ingegnere provinciale Enrico Ionj, in stretta collaborazione con il direttore Meli, mentre l’esecuzione è affidata all’ingegnere Alessandro Scalcucci, per ciò che attiene alla direzione dei lavori e, come era già avvenuto in precedenza, ad Alessandro Bacchiani per la realizzazione [PU_4_2_4].
Alla data del primo luglio 1851 i rinchiusi sono centoquarantasette. Lo stesso anno, a Meli subentra il folignate Giuseppe Girolami, nuovo direttore medico.
Nel 1852 l’ingegnere Bufalini redige un progetto di ampliamento che, tuttavia, non sarà realizzato. A lui è da ascrivere solamente l’esecuzione del muro ornato di fronte Porta Rimini. L’anno successivo, l’ingegnere provinciale Alessandro Scalcucci sviluppa un secondo progetto di ampliamento destinato, anche in questo caso, a rimanere sulla carta. Nel 1855, in collaborazione stretta con Girolami, Scalcucci elabora un progetto per un nuovo manicomio, da erigersi fuori delle mura della città in un luogo isolato. La Deputazione provinciale, dopo attento esame, scarta l’ipotesi per l’ingente somma necessaria alla nuova costruzione. La ristrutturazione dell’antico edificio torna a essere l’ipotesi più praticabile. Alla data del primo luglio 1858, con il numero di pazienti salito a centosettantanove, l’ampliamento del San Benedetto non è più procrastinabile.
IV fase: 1858-1900 [PU_4_1_8]
architetti/ingegneri: Giuseppe Cappellini , Alessandro Scalcucci
alienisti/psichiatri: Giuseppe Girolami; Filippo Cardona; Cesare Lombroso; Antonio Michetti
Il 29 novembre 1858, l’architetto toscano Giuseppe Cappellini, incaricato dalla Deputazione provinciale di sviluppare il progetto di ampliamento e sistemazione del San Benedetto, consegna i disegni, frutto della stretta collaborazione con Girolami [PU_4_2_5; PU_4_2_6; PU_4_2_7; PU_4_2_8]. La direzione dei lavori è affidata all’ingegnere Alessandro Scalcucci, assistito dal capomastro Alessandro Bacchiani che, dopo la morte, sopraggiunta nel 1860, sarà sostituito dai suoi due figli, Domenico e Giovanni. Il nuovo intervento, ispirato dal direttore che imporrà una netta divisione per sesso e per malattia, sfrutta le strutture preesistenti. Presentato all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, il progetto prevede:
il raddoppio, col prolungamento verso est fino a via Mammolabella, del corpo di fabbrica principale a quattro piani, l’apertura dell’ingresso principale al centro della nuova facciata e la saturazione dell’area precedentemente occupata dal vicolo del Sesino e dalle casupole dislocate tra il vicolo stesso e via Mammolabella [PU_4_3_1; PU_4_3_5];
il prolungamento verso sud, fino alla nuova ala eretta in precedenza su progetto di Enrico Joni, del corpo di fabbrica che si affaccia su via Mammolabella [PU_4_3_4; PU_4_3_6];
l’aggiunta di un piano alle vecchie ali di fronte Porta Rimini e lungo via Mammolabella, in difformità rispetto al progetto Cappellini [PU_4_3_3; PU_4_3_8];
l’inserimento di un corpo di fabbrica trasversale, creando due cortili all’interno;
l’erezione, all’estremità est del Parchetto [PU_4_3_2], di un nuovo stabile i cui locali, dopo una iniziale destinazione a lavanderia, stalle e sala anatomica, sarà impiegato per accogliere i folli poveri [PU_4_3_7].
Nel 1863, con i lavori ancora in corso, l’architetto Cappellini, su richiesta della Deputazione, fornisce un nuovo disegno per la lavanderia, collocata all’estremità meridionale del giardino, sul lato opposto all’ingresso principale. Nel 1871, i lavori iniziati dodici anni prima possono dirsi conclusi. L’assetto e le caratteristiche assunte dall’Istituto a questa data rimarranno pressoché inalterati anche negli anni successivi, quando si eseguiranno lavori di ristrutturazione di modesta entità. L’insufficienza delle opere e dei lavori intrapresi, i vizi insiti nella fabbrica, la localizzazione del complesso nello spazio infra-moenia e a ridosso delle mura con la conseguente impossibilità di ulteriori ampliamenti, il numero di degenti salito a duecentocinquanta unità, fanno sì che nel 1873, dopo soli due anni dalla conclusione dei lavori iniziati nel 1859, il manicomio pesarese versi nuovamente in condizioni critiche.
Se ne era già reso conto Cesare Lombroso – alla direzione del San Benedetto dall’inverno all’autunno del 1872 – che, dopo soli nove mesi, non esiterà a lasciare la direzione del manicomio per rientrare a Pavia dove, dal 1862, aveva svolto attività di docente e di primario di un reparto di alienati. Le ragioni di questa rinuncia sono da ascrivere: a) alle condizioni materiali dell’ospizio; b) alla penuria di fondi per la gestione e il miglioramento dell’istituto; 3) all’assenza di una facoltà di medicina, e quindi di allievi da inquadrare in un profilo rigorosamente scientifico. Sul quarto numero del Diario dell’ospizio di San Benedetto in Pesaro, il bollettino da lui stesso fondato, segnala la necessità di concepire locali di servizio ispirati a nuovi modelli, di abolire le celle dei “furiosi”, giudicate “indegne di una casa di pena”, di trovare uno spazio adeguato, al di fuori dell’istituto, dove fare alloggiare e fare lavorare un centinaio di ricoverati inoperosi che non possono più uscire dal manicomio.
Le condizioni del San Benedetto nel 1873, sono descritte dal medico direttore del manicomio di Ferrara, Clodomiro Bonfigli (Bonfigli 1882, p. 4): celle d’isolamento per i “malati inquieti” prive di aria e di luce; “infermerie anguste e mal ventilate”; impiego di pagliericci putridi, ricettacolo “di insetti schifosi”, al posto di materassi; mancanza d’acqua corrente; locali dei bagni privi di apparecchi idroterapici e di tinozze di latta e rame; latrine pessime; scarsi mezzi di illuminazione artificiale nei dormitori; laboratori insufficienti; guardaroba “miserrimi”. A queste denunce si aggiungono quelle di Antonio Michetti, direttore dell’istituto dal 1873 al 1905, alla Deputazione provinciale: limitata estensione e ignobili condizioni del “parchetto”, ridotto a un lurido letamaio; assenza di locali e relativa strumentazione per l’idroterapia, “ritenuta fondamentale per la cura della pazzia”; impossibilità di separare i folli in base al tipo di malattia mentale; insufficiente numero di letti a branda; pessima esecuzione delle latrine, fonti di esalazioni nauseabonde soprattutto nei mesi estivi; e, non ultimo, la “sgradita presenza” di delinquenti, per i quali sarebbe stato opportuno un manicomio criminale. L’insufficiente estensione del parchetto, destinato allo svago dei folli, induce Michetti a richiedere un’area adeguata alla costituzione di una “colonia agricola”, analogamente a quanto avviene in altri manicomi provinciali.
Nel 1874 s’intraprendono, anche se in misura parziale, una serie di lavori di ristrutturazione che, procedendo molto a rilento, non faranno registrare sensibili miglioramenti. Tre anni dopo, a lavori solo parzialmente eseguiti, restano critiche le condizioni di bagni, latrine, dormitori e camere destinate ai “furiosi”, mancano le dotazioni di base (materassi, brande) e gli impianti (elettrico e soprattutto idrico-sanitario che, al termine dei lavori, non sarà stato ancora realizzato tanto da impedire, vista l’assenza di condutture di adduzione e scarico dell’acqua, l’idroterapia).
I lavori richiesti da Michetti e avviati nel 1874, sono finalmente portati a termine dieci anni dopo. Nel 1884 il San Benedetto può finalmente disporre di un impianto di acqua potabile, di un serbatoio di riserva d’acqua, di gabinetti idroterapici, di un guardaroba sensibilmente ampliato e di reti metalliche in sostituzione dei pagliericci. Le celle di isolamento sono completamente restaurate. Lo stato delle latrine resta tuttavia pessimo, i dormitori mancano di prese d’aria e l’impianto di riscaldamento è assente.
A quest’epoca la popolazione del San Benedetto supera le trecento unità. La sezione maschile dispone di una infermeria e di specifici reparti destinati ai furiosi, agli epilettici, ai sudici e ai folli inabili al lavoro.
Il 1885 fa registrare un leggero miglioramento delle condizioni all’interno del San Benedetto, soprattutto per effetto della diminuzione degli internati, dirottati nel nuovo manicomio di Imola. I lavori di ristrutturazione continuano, in particolare modo nella sezione femminile e nei locali delle furiose, dove si sistemano le latrine e i refettori.
Il decennio 1890-1900 costituisce una nuova fase critica: la popolazione del San Benedetto passa dalle trecentocinquanta unità del 1890 alle quattrocentoquarantuno unità del 1899. Michetti sollecita nuovi lavori: rifacimento pavimenti, nuove celle d’isolamento da destinare ai “furiosi”, camere per i “contumaciali” (affetti cioè da malattie contagiose e da mettere, quindi, in isolamento), un reparto di convalescenza.
V fase: 1900-1997 [PU_4_1_8]
architetti/ingegneri: non identificati
alienisti/psichiatri: Luigi Cappelletti; Antonio D’Ormea; Angelo Alberti; Ferdinando Ugolotti; Giorgio Padovani; Ezio Zerbini; Carlo Ferrari
Nel 1900, per fare fronte al numero crescente di folli, si allestisce all’interno del “parchetto” un padiglione o “capannone” di ricovero. Si procede inoltre con l’installazione del primo impianto di illuminazione a gas, delle suonerie elettriche di allarme e dell’impianto telefonico per le chiamate urbane. Si sistemano i locali delle latrine e dei dormitori per i “dementi tranquilli” e si posa inoltre il pavimento nel dormitorio delle “agitate sudicie”. Nel 1905, il neo direttore, Luigi Cappelletti, già assistente-medico del manicomio di Ferrara, fa edificare la manica di aule (oggi nota come “schiera”) [PU_4_1_5; PU_4_1_6] a un solo piano sul lato orientale del giardino rivolto su via Mammolabella. L’aumento oltre le cinquecento unità del numero di degenti, registrato nel 1931, impone l’ennesimo anche se parziale ampliamento, questa volta limitato al prolungamento del padiglione “Sant’Elena”, dimensionato per dare ricovero a non più di settanta pazienti.
Nel gennaio del 1944, il San Benedetto è fatto evacuare dai tedeschi che, occupando il complesso e impossessandosi del materiale mobile, costringono i degenti al trasferimento forzoso nelle due succursali di Sant'Angelo in Vado e di Bagno di Romagna, poste su fronti contrapposti, rispettivamente al di qua e al di la della linea Gotica. Nonostante i notevoli danni di guerra subiti nel corso del 1945, il San Benedetto è requisito dagli alleati che decidono di utilizzarlo come ospedale militare. Il manicomio riprenderà la sua normale attività due anni dopo.
Nel 1962 si inaugura il Centro di Igiene Mentale per garantire l’assistenza ai dimessi. Dodici anni dopo, precisamente l’11 novembre 1974, è presentato in Consiglio Comunale il Piano particolareggiato del Centro Storico, sviluppato dal gruppo di architetti e docenti dello IUAV formato da Carlo Aymonino, Costantino Dardi, Gianni Fabbri, Raffaele Panella, Gian Ugo Polesello, Luciano Semerani e Mauro Lena. In vista dell’attuazione del Piano si costituisce il Laboratorio Urbanistico il cui scopo è la formazione di un programma di ricerche che faccia da supporto alle attività di progettazione e gestione del comprensorio. L’esperienza del Laboratorio porta alla redazione dei piani di recupero di diversi complessi d’interesse storico-architettonico e allo svolgimento di due seminari di progettazione, tra cui quello per l’area del Progetto 7, coincidente con il complesso del San Benedetto. In vista dell’approvazione della L. 180/78 e della conseguente chiusura del manicomio, alcuni degenti sono trasferiti in altre strutture. Nel 1975 avviene la prima chiusura del manicomio [PU_4_1_7]. Con l’approvazione della L.R. n. 27/1985, che impone la riconversione dell’ospedale psichiatrico provinciale di Pesaro in “Centro Riabilitativo Assistenziale Sanitario” (CRAS San Benedetto), inizialmente gestito dalla USL poi dalla ASL, nel 1987 si costruiscono due nuovi padiglioni all’interno dell’area manicomiale, consentendo così al CRAS di accogliere parte dei pazienti dello stesso ex-manicomio. In conseguenza della legge finanziaria n. 724 del 1994, che impone la chiusura dei manicomi entro il 31 dicembre 1996, gli ultimi ospiti del CRAS lasciano il centro nel 1997, sancendo la definitiva chiusura dell'ex-ospedale psichiatrico.
impianto
Blocco a crociera e recinto perimetrale, disimpegnato da quattro cortili chiusi porticati [PU_4_1_7]
corpi edilizi
Blocco ospedaliero articolato in due parti: un corpo di fabbrica a quattro piani, conformato a pettine, giustapposto a una struttura di tipo conventuale a due piani, disimpegnata da due cortili chiusi porticati. L’unione delle due parti, al primo e al secondo livello, genera una crociera inscritta in recinto perimetrale.
Una manica di aule a un solo piano, nota come “schiera”, connessa al blocco principale
Due padiglioni di degenza a due piani in posizione isolata
Un corpo di fabbrica a più ali costituente il nucleo della lavanderia e dei locali tecnici
strutture
strutture in elevazione muratura di pietrame rivestita di mattoni in foglio, cemento armato; finitura superficiale ad intonaco di calce liscio o trattato tipo “sagramatura”, finitura a mattone faccia a vista
orizzontamenti volte in muratura a botte e a crociera, volte a “camorcanna”, solai in legno, solai a voltine di mattoni e putrelle in ferro, solai in cemento armato
coperture a capanna, a padiglione e a falda unica; doppia orditura, principale e secondaria, in legno, sottomanto in tavolato e manto in tegole; coperture piane in cemento armato
cattivo/pessimo blocco principale (ex-ospedale psichiatrico, disimpegnato dai quattro cortili chiusi porticati); schiera (corpo di fabbrica sul limite orientale del Parchetto); cella (padiglione sul limite orientale del Parchetto, all’incrocio tra via Mammolabella e via Massimi); ex-lavanderia (corpo di fabbrica meridionale all’incrocio tra via Giambattista Passeri e via Massimi); annesso
medio padiglioni ex-CRAS
Regolamenti e statuti pel nuovo ospedale provinciale de’ mentecatti in Pesaro, Pesaro 1828
G. I. Montanari, Il San Benedetto ospizio pei dementi in Pesaro (estr. da "Museo", II, 51, 1840), Tip. Fontana, Torino 1841
F. Cardona, Del manicomio pesarese. Ragguaglio morale, Tip. Nobili, Pesaro 1869
A. Michetti, Intorno al manicomio provinciale di San Benedetto in Pesaro. Note del medico direttore Antonio Michetti, Stab. Tip. Nobili, Pesaro 1873
F. Carnevali, Progetto di riforme e provvedimenti per il manicomio S. Benedetto in Pesaro, Stab. Nobili, Pesaro 1880
C. Bonfigli, Il manicomio di San Benedetto a Pesaro, Forlì 1882
A. Michetti, Relazione sulle condizioni materiali e morali del manicomio provinciale di Pesaro, Stab. Tip. Nobili, Pesaro 1887
Id., Sullo stato morale e materiale del manicomio San Benedetto in Pesaro, Stab. Tip. Nobili, Pesaro 1895
A. Alberti, Le passeggiate, come allenamento alla vita sociale, nei malati di mente, in "Diario del San Benedetto", II serie, I, 1906, pp. 60 s.
A. D'Ormea, L'ospitalizzazione degli alienati nelle Marche, Tip. Federici, Pesaro 1909
F. Ugolotti, Studio storico sull'assistenza degli infermi di mente nella provincia di Pesaro e Urbino con particolare riguardo all'ospedale di S. Benedetto, in "Note e Riviste di Psichiatria", LVI, 1927, pp. 245- 266
L. Fontebuoni, Il Barchetto, in La città e il suo corpo. Centro storico di Pesaro, 1985, catalogo della mostra, a cura di M. Casciato, Comune di Pesaro-Assessorato all’Urbanistica, Pesaro 1987, pp. 58-91
L. M. Bianchini, B. Riboli, A. Tornati, Breve storia del manicomio “San Benedetto” di Pesaro. Dalla fondazione all'istituzione del Dipartimento di salute mentale, Comune di Pesaro-Provincia di Pesaro Urbino-Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, Pesaro 1997
Per un atlante degli ospedali psichiatrici pubblici in Italia. Censimento geografico, cronologico e tipologico al 31 dicembre 1996 (con aggiornamento al 31 ottobre 1998), a cura della Fondazione Benetton Studi Ricerche, Treviso 1999, pp. 148 s.
P. Giovannini, Il San Benedetto. Storia del manicomio pesarese dalle origini alla grande guerra, numero monografico di "Pesaro Città e Contà", 27, 2009
G. Doti, Ospizio di San Benedetto in Pesaro, in I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di C. Ajroldi, M. A. Crippa, G. Doti, L. Guardamagna, C. Lenza, M. L. Neri, Electa, Milano 2013, pp. 230-232
Archivio di Stato di Pesaro , Ospedale Psichiatrico Provinciale San Benedetto di Pesaro
Biblioteca Oliveriana Pesaro, Fondo Ospedale Psichiatrico San Benedetto
Biblioteca Comunale “Aurelio Saffi” Forlì, Raccolte Piancastelli, Sezione Stampe e Disegni, Album Romolo Liverani
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